di Fausto Sorini
In occasione del 30° anniversario del Centro Culturale Concetto Marchesi (CM) mi è stato chiesto di ricordare le figure di Arnaldo Bera e Alessandro Vaia, che – insieme a Giuseppe Sacchi – furono i protagonisti principali della fondazione di quella cooperativa Editrice Aurora di cui il CM fu la filiazione milanese, ed Interstampa la filiazione nazionale.
Di Sacchi (l’unico ancora vivente) parleranno diffusamente altri, che con lui ebbero una più assidua e durevole frequentazione.
Questi tre compagni furono per molti anni la triade strategica di una lunga lotta contro il processo di socialdemocratizzazione del PCI. E’ una storia non ancora scritta compiutamente: forse è venuto il momento di contribuire a farlo, anche per colmare alcuni vuoti di informazione e interpretativi presenti nelle diverse ricostruzioni (parziali) che ne sono state fatte negli anni successivi al 1989. Tra queste, a mio parere, la meno incompleta sul piano informativo è quella prodotta da Sandro Valentini nel suo La vecchia talpa e l’araba fenice (Città del Sole, Napoli 2000), molto ricco di dati e informazioni sulle vicende di cui fu partecipe. Ma c’è ancora molto da raccontare.
Chi erano Arnaldo Bera e Alessandro Vaia? Cominciamo col ricordarne alcune brevi note biografiche.
Arnaldo Bera nacque a Soresina (CR) nel 1915. Operaio, si iscrisse al PCd’I clandestino nel 1933 (aveva 18 anni) e tentò, senza riuscirvi, a causa di una bufera di neve, di varcare il confine per raggiungere la Spagna come volontario delle Brigate Internazionali.
Entrò nella Resistenza italiana subito dopo l’8 settembre e nel dicembre ’43 fu incaricato dal CLN regionale lombardo di costituire le Brigate Garibaldi in provincia di Cremona, di cui sarà Commissario ed Ispettore, mantenendo il collegamento con Milano tramite Giuseppe Alberganti.
Arrestato nel gennaio 1945, interrogato e torturato nel carcere di Mantova, fu processato dal Tribunale speciale e messo in carcere a Bergamo, da dove uscì il 25 aprile, appena in tempo per tornare a Cremona e partecipare all’insurrezione, organizzata per il 27.
Subito dopo la Liberazione fu dirigente del PCI a Cremona e candidato alla Costituente.
Nel 1946 col congresso CGIL (ancora unitaria) divenne segretario responsabile della Camera del Lavoro provinciale. Come dirigente sindacale e politico fu tra i protagonisti delle lotte sociali durissime di fine anni ’40.
Nell’ottobre 1947 fu nominato segretario della Federazione PCI di Cremona al posto di Alessandro Vaia. Nel 1949 partecipò al corso quadri delle Frattocchie. Nel 1950 entrò nella segreteria della Federazione di Milano (con segretario Alberganti), fino alla sostituzione di quest’ultimo con Armando Cossutta. Quindi fu segretario provinciale del PCI a Varese, segretario regionale della Lombardia, poi funzionario presso la Direzione a Botteghe Oscure.
Nel 1951 entrò nel Comitato Centrale come “membro candidato”.
Tornò a Cremona di nuovo come segretario della federazione nel gennaio 1960, fino al 1963, quando fu eletto senatore per due legislature, fino al 1972. Dal 1965 era presidente provinciale dell’ANPI, e tale rimase per molti anni, prima di ritirarsi a Soresina, dove morì nel 1999.
Pur con posizioni sempre più critiche, rimase iscritto al PCI fino al suo scioglimento, e non si iscrisse mai a Rifondazione, il cui gruppo dirigente egli considerò fin dall’inizio con profonda sfiducia.
Pietro Secchia – di cui Bera rimase fino alla fine uno dei più stretti compagni e collaboratori – lo aveva designato come erede del suo archivio, insieme al figlio adottivo Vladimiro; precisando, in una lettera autografa scritta a mano, che sulle decisioni riguardanti l’archivio, “l’ultima parola spettava a Bera”.
Alessandro Vaia nacque a Milano nel 1907. Si iscrisse al PCd’I nel ’25 (a 18 anni) e l’anno dopo entrò in clandestinità. Arrestato nel ’28, restò in carcere per 5 anni, poi emigrò in Francia. Nel ’35 fu inviato alla scuola leninista di Mosca, politica e militare, dove divenne ufficiale. Da lì, nel ’37, venne inviato a combattere nelle Brigate internazionali in Spagna, dove – sotto la direzione di Luigi Longo – diventò Generale della 12° Brigata Garibaldi, che verrà solennemente definita “la migliore unità della 45a Divisione”. Sconfitta la Repubblica spagnola, dopo 4 anni di campo di concentramento e di carcere duro in Francia, riuscì a fuggire e rientrò in Italia nel ’44. Nel marzo ’45 sarà a Milano come Commissario di guerra del Comando Piazza, dove dirigerà l’insurrezione del 25 aprile e sarà poi insignito della Medaglia d’argento al valor militare.
Su tutta questa parte della sua vita vale la pena, tanto più in tempi di revisionismo imperante, di leggere e rileggere il suo libro autobiografico Da galeotto a generale (Teti, Milano 1977), con prefazione di Luigi Longo. Vaia fu spesso sollecitato (invano) dai suoi amici e compagni a scrivere la seconda parte di quel libro, dal 1945 fino agli anni ’80, ma egli riteneva che fosse “troppo presto”.
Dirigente del PCI, segretario delle federazioni di Cremona e di Brescia, vice segretario della federazione provinciale di Milano, membro del CC, subirà dopo il ’56 – in nome del “rinnovamento” – l’epurazione della guardia partigiana vicina a Pietro Secchia: operazione che a Milano verrà condotta, congiuntamente, da Rossana Rossanda e Armando Cossutta, su direttiva di Togliatti. E fino alla sua morte, avvenuta nei giorni della nascita del PRC (12 febbraio 1991), Vaia parteciperà – insieme a Bera e Sacchi – da protagonista di primo piano, alla lotta contro la mutazione del PCI.
Sicuramente Brecht li avrebbe collocati tra gli “imprescindibili”, quelli che lottano per tutta una vita. Ma perchè parlo di una triade?
Per molti anni, dopo la morte di Secchia dovuta a “postumi da avvelenamento” (1973), questi tre compagni rappresentarono il nucleo dirigente ristretto e ispiratore della battaglia politica contro la mutazione genetica del PCI. Non furono certo gli unici protagonisti di quella lotta, ma fu fondamentalmente grazie alla loro decisione che avvenne la fondazione della cooperativa editrice Aurora (1978); di Interstampa, che nacque a Milano come agenzia (1981), anche se formalmente fu pubblicata inizialmente a Roma, poi divenne rivista, incautamente affidata alla gestione romana dell’editore Napoleone, e ritornò poi a Milano dopo la crisi di quella gestione editoriale. E fu in conseguenza di quelle scelte di portata nazionale e internazionale che, successivamente, nacque il Centro Culturale Concetto Marchesi (1984), che fu l’articolazione milanese di quel progetto politico e culturale.
Ai loro incontri, che si svolgevano in una trattoria di campagna a metà strada tra Milano e Soresina, fui ammesso alla fine degli anni ’70, dopo un apprendistato di anni e dopo alcune discussioni tra i tre sull’opportunità di quell’allargamento a un “giovane” (avevo allora 27 anni, e fu per me una grande scuola).
Saltuariamente venivano tenuti contatti romani con Ambrogio Donini, nella sua casa di Rignano Flaminio. Il “professore” era ormai molto anziano, malato e quasi cieco; aveva grande difficoltà a muoversi e a seguire puntualmente la politica quotidiana e le relazioni con l’esterno, il che lo costringeva ad affidarsi a persone che in alcuni casi si rivelarono poco affidabili (tra esse vi fu anche un informatore infiltrato dalla Commissione Centrale di Controllo del PCI, come venne alla luce molti anni dopo, e che ci procurò qualche inconveniente…). Ma il contributo di Donini fu prezioso, non solo perchè egli mise il prestigio della sua personalità politica e intellettuale al servizio della causa, ma soprattutto perchè, prima della discesa in campo aperto di Cossutta, Donini gestì alcuni contatti significativi con la sezione esteri del PCUS e con l’ambasciata sovietica a Roma, con tutto quello che ciò comportava.
La situazione cambiò quando Armando Cossutta, dopo essere stato escluso da Berlinguer nel 1975 dalla segreteria nazionale del PCI, e che per una certa fase non esplicitò il suo dissenso, decise agli inizi degli anni ’80 – dopo lo strappo berlingueriano del 1981 – di scendere apertamente in campo. A quel punto si costituì un’area più larga e influente, ma anche assai più composita, di cui Cossutta divenne il leader naturale, e che fu sempre caratterizzata da una dialettica interna assai complessa, anche se esplicitata solo in ambiti molto ristretti.
Quando Cossutta scese in campo aperto, si costituì un nucleo ristretto di coordinamento costituito da Bera, Cappelloni, Cazzaniga, Cossutta, Sacchi, Sorini, Vaia. Ma fin dall’inizio Cossutta e Cappelloni operarono per la esclusione di Bera e Vaia, considerati i meno docili agli orientamenti dell’Armando (al loro posto entrò Sergio Ricaldone, molto legato a Vaia: ma l’equilibrio interno cambiò), e ciò rese più evidente ai miei occhi giovani e inesperti che c’era qualcosa che non quadrava.
Ma torniamo agli incontri dei tre nella trattoria di campagna, negli anni ’70, dopo la morte di Secchia (1973). Per molti anni quegli incontri furono caratterizzati dalle discussioni sul che fare. Evidenti erano le preoccupazioni che questi compagni nutrivano sulla evoluzione del profilo politico, ideologico e organizzativo del PCI dopo la liquidazione di Secchia (1954), e poi dopo la morte di Togliatti (1964), dopo la malattia di Longo e l’avvento della segreteria di Berlinguer (1972). Il punto era se la battaglia politica che ognuno di essi conduceva nella propria realtà cercando di non violare le regole di un centralismo poco democratico rispetto all’originaria concezione di Lenin, dovesse o meno assumere un carattere di visibilità nazionale e di organizzata. E ciò in una situazione in cui altre componenti del PCI, come quella “migliorista” che faceva capo a Napolitano, potevano addirittura godere del fiancheggiamento organizzatissimo e assai influente dei giornali della borghesia e in particolare di Repubblica, sorta a metà degli anni ’70 proprio per sostenere la mutazione e la decomunistizzazione del PCI.
Bera era da sempre il più deciso a procedere, Sacchi il più attento alle regole interne di partito, Vaia l’elemento di sintesi e di maggior equilibrio, soprattutto nei momenti più difficili, in cui il confronto interno si scaldava. Fu deciso infine, nel corso del 1978, di costituire una cooperativa editrice, i cui soci (circa duecento) fossero quadri selezionatissimi su scala nazionale, raccordati tra loro con modalità che non violassero apertamente lo Statuto del partito, e che al tempo stesso garantissero la diffusione di pubblicazioni di orientamento politico e ideologico di impianto leninista. Una rete cioè di “soci” che garantissero la diffusione di alcune migliaia di copie nelle rispettive realtà territoriali (anche al fine di autofinanziare la cooperativa), e che attorno alla pubblicazione di questi materiali sapessero organizzare presentazioni pubbliche, evitando ogni contrapposizione frontale al partito, ma su contenuti controcorrente rispetto alla mutazione in corso. E inizialmente soprattutto sulle questioni internazionali.
Ma avremo modo presto di riparlarne.