Napolitano, la storia del PCI, il presente dei comunisti

di Sergio Ricaldone, Comitato Centrale PdCI

occhetto napolitano usaSessanta anni dopo la sua entrata in Parlamento, era il 1953, ed eletto due volte (!) presidente, Napolitano è diventato un personaggio idolatrato e osannato dalla destra e dalla sinistra moderata. Come ci sia arrivato lassù è una storia che non tutti conoscono. “Migliorista”, opportunista, doppiogiochista nel PCI, intimo amico politico di Bettino Craxi, carrierista, grande maestro di mimetismo, la sua stella polare è sempre stata il moderatismo della peggiore socialdemocrazia europea. Dotato di indubbia intelligenza, di notevole capacità seduttiva e di ambizione è stato associato al “trasformismo” (qualifica piuttosto deteriore per gli storici), di De Pretis, inventore di quella formula che prevedeva la fusione in un unico gruppo parlamentare delle due formazioni risorgimentali, Destra e Sinistra storica. Qualcosa di simile alle “larghe intese” di oggi tra PDL e PD.

Iscritto al PCI nel 1948 ed eletto in Parlamento nel 1953, la sua carriera si è svolta con lo sguardo sempre rivolto a destra in un partito che, paradossalmente, per il suo atto di nascita e la sua storia, non poteva essere altro che classista e rivoluzionario. Grande maestro di mimetismo ha lavorato per anni in silenzio come una talpa. Un gioco che non gli ha reso facile misurarsi con i grandi guerrieri leninisti Togliatti, Longo e Secchia che quel partito l’avevano fondato e portato alla vittoria con ben altri fini di quelli di Napolitano. Ma dopo l’incontro con Giorgio Amendola, e capite le sue intenzioni, alla fine, anche se con mezzi subdoli, spesso confinanti con quelli usati a Langley e dai servizi segreti di sua maestà, ha vinto lui e alla grande.

Il bis di Napolitano al Quirinale e lo stato d’animo della sinistra.

A causa di una mia involontaria e prolungata assenza dall’attività di partito mi sono sicuramente perso qualche passaggio del dibattito interno che è seguito ai deludenti risultati delle elezioni politiche del febbraio scorso. La mia lettura dei vari interventi presenterà perciò qualche involontaria omissione non avendo sottomano tutto il materiale che il sito Marx 21 ha pubblicato su questo tema. Me ne scuso anticipatamente con i compagni.

Ho l’impressione, dai pochi interventi che ho letto (ad eccezione dell’ottimo saggio di Andrea Catone che ristabilisce le giuste distanze tra l’attualità, non esente da errori, e la prospettiva), che su una scala da 1 a 10, gli argomenti trattati siano quasi tutti consacrati alla congiuntura politica e all’attualità, e dunque alla tattica (che non è ovviamente un aspetto banale o secondario). Troppo poco rispetto alla prospettiva strategica di chi, come noi, vuole ricostruire un Partito Comunista. Il che fa supporre che quanto scritto sul tema, con molto acume ideale e politico, da Diliberto, Giacché e Sorini nel volume “Ricostruire il partito comunista” e pubblicato solo 2 anni fa, sia già stato archiviato e dimenticato.

Lo scontento popolare dilaga.

Inutile fingere ottimismo. La nostra caduta elettorale, prima con l’Arcobaleno, poi a febbraio, con Rivoluzione civile ha creato delusione e imbarazzo. Parlando con i compagni si ha l’impressione di essere prigionieri di una realtà in cui le ragioni dei comunisti non sembrano più in grado di essere la chiave di lettura della società e del mondo contemporaneo. E’ come se su di noi gravasse una sorte indecisa e terribile. Sembriamo sempre più condannati ad un drammatico isolamento e al perenne, doloroso ripensamento di concetti e decisioni che appaiono al momento consapevoli ma vengono poi regolarmente travolte da una misteriosa entità, in apparenza metafisica, che ci fa scivolare ai margini della vita politica e ci separa dalla nostra classe sociale di riferimento: il mondo del lavoro.

Ancora una volta la figura ambigua di Giorgio Napolitano, il girondino vincente, idolatrato dai banchieri e dalla casta politica, giganteggia dentro un mondo elitario di ricchi privilegiati, decaduto al rango di quello descrittoci da Dickens, Hugo e molti altri, sulla nobiltà britannica e francese dopo la restaurazione : corrotti, ladri, ruffiani, carrieristi, puttane. Tutto meritato, beninteso.

La disperazione del mondo del lavoro e la debolezza delle risposte.

La macchina burocratica e repressiva borghese si ripresenta oggi con la perfezione ottocentesca, degna del nostro capitalismo straccione. La straordinaria evidenza plastica delle immagini di una società devastata ci vengono mostrate con implacabile realismo (e un po’ di masochismo) dall’impero massmediatico. Sembriamo prigionieri di una “soft cage”, una mostruosa gabbia di gomma prodotta da un onnipotente arsenale tecnologico che squaderna ogni nostro pensiero ai gestori del potere: banchieri, speculatori di borsa, grandi industriali, inquisiti e inquisitori, servizi segreti, prelati vaticani. Suicidi e vendette personali segnalano fino a che punto sia giunto il degrado di questo paese ormai privo di forze organizzate che promuovano e dirigano i movimenti latenti ma dormienti, ovunque. Stiamo perciò annaspando dentro uno scenario desolante in cui recitano personaggi clowneschi, simili al teatro dell’assurdo delle commedie di Beckett. Non è strano che in questo quadro riaffiori in molti compagni l’azione dolente e affettuosa della memoria. Tanto più che il capostipite di questo capolavoro si chiama, a mio avviso, Giorgio Napolitano e più avanti cercherò di spiegare il perché.

Tante le proposte tattiche, poche quelle strategiche.

Siccome la fase che stiamo vivendo è difficile e complicata, e non può in alcun modo essere ignorata, è ovvio che i temi preferiti dai compagni siano il quadro politico/istituzionale, le alleanze, il governo, e sopratutto la disperata situazione del mondo del lavoro, dei pensionati, dei disoccupati. Mi domando però a nome di quale soggetto politico comunista stiamo parlando visto che il PdCI, più o meno come i partitini vecchi e nuovi che usano lo stesso aggettivo, sono tutti in terapia intensiva con poche speranze di uscirne vivi. Per fortuna percepisco anche un certo ottimismo. Occorre però non trascurare i tempi molto lunghi e i passaggi necessari per ricostruire una forza politica degna della secolare tradizione di Marx, Lenin, Gramsci dalla quale proveniamo, senza indugiare troppo sui soggetti omonimi, del nostro stesso condominio, per evitare il rischio di spararsi sui piedi ossessionati dall’idea che c’è qualcuno dei tuoi simili che è sempre peggio di tè.

Dare la giusta dimensione dell’analisi storica.

L’entità del disastro richiede di non limitarsi a guardare indietro di qualche anno (cinque, dieci o venti). Il tempo consumato ed il prezzo pagato da intere generazioni per compiere il cammino fin qui compiuto sconsigliano analisi temporali riduttive: il fallimento delle rivoluzioni in Occidente, dopo l’Ottobre, la costruzione del socialismo in un solo paese, la vittoria militare nel 1945, la pace di Yalta, la guerra fredda, i movimenti di liberazione e le nuove rivoluzioni, le conquiste del movimento operaio in Occidente, Bandung e il movimento dei non allineati cadenzano vittorie e avanzate e qualche sconfitta. Ma anche molti errori e qualche degenerazione: il declino economico dell’URSS, la corruzione e lo sfacelo del sistema tardo sovietico. Ma poi, dopo la caduta, anche la fenice ha ripreso il volo. L’imprevista rinascita del comunismo, nel segno del rinnovamento, in ogni continente, la crisi devastante del capitalismo, il declino economico, politico e militare dell’imperialismo hanno cambiato i rapporti di forza planetari. Sembrano passati secoli da quando Brzezinski, il lucido teorico del potere USA, celebrò nel suo libro “La grande scacchiera”, la vittoria dell’egemonia imperialista su scala mondiale. Dunque la forza per ricominciare va trovata anche guardando al mondo senza pessimismo e ai tempi lunghi che ci sono imposti dalla storia.

Il congresso dei Comunisti Italiani e le dimensioni della diaspora.

Il comitato centrale del partito, pur segnato da qualche divergenza, ha convocato il congresso del partito. Il percorso per arrivarci sarà faticoso e segnato da qualche inevitabile polemica. E’ un’ occasione che comunque non va assolutamente sprecata e sulla quale dobbiamo spenderci tutti. Anche perché la sconfitta ha agito da micro moltiplicatore della diaspora. Credo che ormai sia rimasto poco materiale umano per nuove separazioni o scissioni. Stiamo raschiando il fondo del barile. Le ragioni le conosciamo tutti. E siccome non siamo degli ipocriti è inutile nascondere che anche i Comunisti Italiani (come del resto Rifondazione) e gruppi di suoi iscritti nascono a loro volta da separazioni, da scissioni e da conflitti di natura politica che hanno radici lontane, molto lontane. Sto ovviamente parlando del PCI che, a differenza delle balle che si raccontano, non è mai stato un giardino fiorito di idee rispettose le une delle altre ma una vera e propria arena di scontri durissimi. Tutto il contrario di un partito monolitico, dogmatico, ossificato, in perenne adorazione dei suoi idoli. Bordighiani e ordinovisti, operaisti e miglioristi, sinistra e destra, eurocomunisti e internazionalisti, classisti e interclassisti.

Da questi scontri sono sempre usciti dei vincitori e dei vinti con tanto di nome e cognome.

Riforme e rivoluzione, una coppia inseparabile.

Questo non toglie che il solo partito “riformista” che l’Italia abbia avuto sia stato il PCI. La sua storia sta a dimostrare che il vero, autentico riformismo si muove in una prospettiva rivoluzionaria e si regge sulla coppia inseparabile riforme/rivoluzione. La “via italiana al socialismo” prefigurava appunto, non una rivoluzione a breve, ma una transizione, più o meno lunga, dentro la quale la lotta per le riforme assumeva una valenza strategica. E guarda caso, le grandi riforme sono state realizzate proprio in quella fase storica di grandi lotte del movimento operaio, segnate da un’egemonia del PCI. Lotte in cui il ruolo dirigente di Pietro Secchia (considerato settario e ostile al rinnovamento da Napolitano) è stato esemplare. Stiamo parlando di riforme, non di rivoluzione, che dalla Costituzione repubblicana allo Statuto dei lavoratori, hanno spinto molto in avanti il compimento della rivoluzione democratica borghese e permesso di espugnare alcune delle più importanti casematte indicate da Gramsci. Senza peraltro ostacolare minimamente la modernizzazione economica del paese. Non bisogna altresì dimenticare che quando il potere dello Stato è nelle mani del capitale, in assenza di lotta, tutto può essere perduto. Esattamente il quadro di oggi. Ragion per cui la tattica, per quanto avanzata, da sola non basta.

Diversamente dalle nostre speranze, o illusioni iniziali, 20 e più anni di milizia post PCI, sette congressi (di Rifondazione), cinque diversi segretari nazionali, cambiati o cooptati con colpi di mano, ci ricordano le difficoltà di superare le differenze di cultura politica e la auspicata contaminazione tra i diversi soggetti non ha dato i risultati sperati. L’integrazione reciproca in un processo costituente di una nuova forza comunista non è ancora cominciata. Sarà un processo molto lungo, travagliato e guai se qualcuno spera di arrivarci attraverso scorciatoie o regolamento di conti.

Dato per morto il comunismo è più vivo che mai.

La prima cosa da fare è combattere le rimozioni storiche e politiche che in molti hanno fatto e continuano a fare senza eludere l’analisi della sua lunga storia alla quale è intimamente legato il fenomeno Napolitano. Il luogo comune che un partito comunista in Italia appartenga ormai ad una fase ormai superata della storia contemporanea viene da molto lontano (Amendola, Napolitano e i suoi miglioristi ce lo hanno insegnato). Le sue radici sono proliferate proprio dentro il vecchio PCI mezzo secolo fa, sono rimaste dentro Rifondazione e sono ancora presenti oggi in certa “sinistra”. Forse, con questo luogo comune, speravano di masticarci e deglutirci, ma inutilmente: siamo come il chewing gum, indistruttibili. Ci siamo scontrati e logorati sul significato da dare ad alcune parole: partito, imperialismo, Stato nazione, socialismo, transizione, rivoluzione, alleanze, democrazia, riformismo. Ci siamo interrogati e scontrati su quali analisi compiere e quale esperienza trarre dal bilancio storico del comunismo novecentesco. Ci siamo accorti quanto sia difficile portare a sintesi unitaria il pensiero di Gramsci e di Togliatti con quello di Turati, di Trotsky, o a quello post moderno, di Bettelheim e di Marcuse e di tanti altri dilettanti.

In molti, a cominciare da Napolitano, hanno provato a cancellare lo sbocco strategico rivoluzionario e, con quello, il patrimonio genetico dei comunisti in quanto incompatibili con le attuali nozioni di socialdemocrazia, di terzomondismo (neo coloniale), di diritti umani, di democrazia pluripartitica, di non violenza. Il che, detto in altro modo, ha significato il passaggio dal percorso già indicato da Gramsci, riforme/rivoluzione, sancito da Togliatti all’ottavo congresso del PCI, a quello delle cosiddette “riforme”, richieste dal FMI e dalla BCE, tutte centrate contro le conquiste del mondo del lavoro, ottenute, ricordiamolo, grazie alla forza del movimento operaio guidato dal PCI.

Quando e da chi è stato iniziato il processo liquidatorio del PCI.

Il primo tentativo trasformista del PCI è stato compiuto, su pressione della destra interna di Amendola e Napolitano, ormai egemoni nel partito, con l’operazione “rinnovamento”, guidata da Armando Cossutta, che ha avuto come epicentro Milano e la Lombardia. I vincitori miglioristi di quella contesa, dopo avere rimosso i quadri operai dai gruppi dirigenti, non hanno esitato a compiere una vera e propria pulizia etnica ai vari livelli del partito. Questo è stato il primo momento di svolta a destra vinto da Amendola e Napolitano che ha poi gradualmente cambiato la natura del PCI: da partito “di lotta e di governo” a “partito di governo”. Il suo baricentro è stato rimosso dalle fabbriche e piazzato nelle istituzioni e nel territorio.

L’opera demolitoria è stata proseguita dall’ultimo Berlinguer, con la motivazione dell’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Evidentemente molto bene aggiornato sullo sfacelo economico e politico in atto nell’URSS post brezneviana, l’ha presentata in patria con molta cautela a causa del mito dell’Unione Sovietica perdurante in milioni di comunisti italiani, inconsapevoli del tragico finale gorbacioviano che stava per investirla.

Da partito classista di lotta a partito di governo delle larghe intese.

Con Berlinguer, diventato segretario del partito, nonché battistrada delle “larghe intese” e del “compromesso storico con la DC”, l’erosione della corda da scalata che ci teneva aggrappati all’idea di rivoluzione e di unità del partito, prima con Gramsci, poi con Togliatti, Longo e Secchia, ha cominciato a sfilacciarsi in modo impercettibile, ma solo nei gruppi dirigenti. Difficile a quel tempo criticare o ledere il mito dell’Unione Sovietica. Era ancora quel mito che accendeva le speranze e la passione militante di più di un milione di iscritti. Pochi guardavano criticamente ai fallimenti economici dell’URSS di Krusciov, Breznev, Cernenko, Gorbaciov (con l’eccezione di Andropov), dovuti alla mancanza di una transizione più o meno lunga che bilanciasse con le riforme il peso preponderante dell’industria pesante e quella degli armamenti, che aveva come baricentro di politica estera la sfida militare con gli Stati Uniti, la politica di potenza, nonché l’insofferenza per ogni tendenza innovativa nei paesi dell’est e il confronto militare con la stessa Cina.

La lunga marcia fuori dal comunismo.

Berlinguer, diventato ormai sensibile alle idee di Napolitano, e pur cosciente dei deterioramenti politici ed economici in atto a Mosca, più volte criticati e ben prima della sua adesione alla Nato, ha ugualmente mantenuto la barra verso la rottura. Il PCI avrebbe potuto, dopo quelle critiche, uscire da sinistra dall’internazionalismo da grande potenza brezneviano praticato dal Cremlino ma ha preferito seguire le sirene del modello “scandinavo”, quelle della socialdemocrazia europea e quelle del “terzo mondismo” del dopo Bandung. I risultati sono noti. Non so chi abbia visto il film “La signorina effe” uscito qualche anno fa. E’ una metafora molto realistica di quello che è successo negli anni 70/80 che ci fa riflettere sulle profonde ragioni che hanno falcidiato la sinistra nel febbraio scorso. C’è l’operaio cosciente dei suoi diritti, sorretto da forti ideali, che trascina nella lotta i 60 mila operai di Mirafiori, cittadella simbolica del capitale industriale. C’è anche una “lei” (la signorina effe), donna in carriera, che anziché alla catena lavora ai piani alti di corso Marconi, che però solidarizza e si colloca a fianco degli operai che lottano, segno che il forte messaggio di quella lotta ha fatto presa anche su ceti tendenzialmente subalterni ai padroni. L’epoca di cui ci parla il film è stata vissuta da noi vecchi compagni come uno dei momenti più alti del movimento operaio. Poi arriva la controffensiva del capitale e inizia il declino. Il finale del film racconta, nelle sue dimensioni intime, le conseguenze di quella sconfitta del partito e del sindacato: l’operaio cacciato dalla fabbrica che diventa tassinaro, ossia un micro imprenditore di se stesso, isolato e deluso, e lei che viene riassorbita e reintegrata dai padroni della FIAT come soggetto delle nuove strategie industriali. Un’anticipazione della società di oggi e del suo vincitore: Giorgio Napolitano.

Il doppiogiochismo di Giorgio Napolitano nel PCI .

Dopo Mirafiori e la marcia reazionaria dei 40 mila la vecchia volpe migliorista annusa l’aria del successo. Prima l’adesione alla Nato. Poi la conferma che il comunismo di Lenin e Gramsci è sconfitto arriva da Mosca nel 1990. Il “muro” è già crollato, la socialdemocrazia ha vinto. Il doppio gioco del migliorista può finire tranquillamente sui giornali. Enrico Franceshini lo conferma sul Venerdì di Repubblica dell’1/6/12: “Nel settembre 1977 l’ambasciata americana a Londra rivela agli alleati britannici che i diplomatici USA in Italia mantengono un “contatto di lavoro” con il PCI, in maniera più o meno regolare, riferendosi ai colloqui segreti intercorsi tra l’ambasciatore Richard Gardner e Giorgio Napolitano. E proprio da Napolitano, nel corso di un colloquio con l’ambasciatore britannico a Roma nell’aprile 1978, giunge a Londra questa opinione riguardo alla politica del compromesso storico: “Il PCI sostiene che il compromesso storico sarebbe solo una fase transitoria, nel corso della quale verrebbero stabilite le condizioni per una successiva fase di alternanza al potere, secondo il modello britannico”. La missione di Napolitano è compiuta, ma la destra”non abbassa i toni”.

A Washington, Berlino, Tokyo e Parigi anche le speranze di Brandt, Mitterand, Palme vengono impietosamente superate dalla nuova razza guerrafondaia di Tony Blair. Il neoliberismo trionfa e dilaga. E ancora una volta Napolitano si adegua. Sostiene entusiasta la Bolognina, poi la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, ma il nuovo partito post comunista gli risulta ancora un abito troppo stretto.

Gli effetti moltiplicatori del trasformismo migliorista.

Il superamento del comunismo prosegue con sempre maggiore intensità liquidatoria, anche in altre sedi con la partecipazione dei neo rifondatori Garavini, Cossutta e Bertinotti, per non parlare delle figure minori che si sono succedute in questi ultimi anni. Qualcuno troppo ambizioso si è, metaforicamente, ficcato la spada nel corpo come un vecchio samurai.

Un intera generazione di camaleonti, pseudo cattolici di “sinistra”, tipo Nichi Vendola, si è servita dell’ipocrisia per riscrivere ogni capitolo della nostra storia, sebbene quel peccato – l’ipocrisia – sia severamente condannato dalle sacre scritture. Incuranti del “quinto comandamento” la loro licenza di uccidere la verità è stata usata senza risparmio. Ora sono quasi tutti ricomparsi sui radar nei ruoli di supporter di forze politiche anticomuniste. Il che non significa, ovviamente, che siano loro il nemico. Tra coloro che li sostengono ci sono tanti compagni in buona fede con i quali va tenuto aperto un confronto costruttivo.

Che fare?

La fatica e l’impegno che ci aspetta è enorme: siamo una piccola testa di ponte in territorio ostile, circondata da migliaia di persone disperate che pongono problemi, che fanno domande che esigono risposte. Ci troviamo caricati da una enorme e prioritaria responsabilità: riuscire a ricostruire una presenza organizzata dei comunisti nei luoghi di lavoro e nel territorio. Una presenza che restituisca la fiducia nella politica, nella lotta e nel cambiamento e sia la precondizione per il sorgere di un grande movimento di massa. Senza un partito forte e organizzato è prematuro mettere al primo posto le alleanze o la disponibilità al governo in qualsivoglia istituzione, piccola o grande, comunale o nazionale. A chi ci chiede oggi, in campo amico, di ammainare simbolo, bandiera, ideologia e speranza di cambiare il mondo dobbiamo saper rispondere con realismo che così come siamo ridotti saremmo ininfluenti e soccombenti. E’ molto più importante ribadire l’intenzione di andare avanti nel processo costituente, aperti al confronto, beninteso, con chiunque creda nel progetto, oppure da soli e, se necessario, contro chi lo ostacola.

(Ringrazio Luca Ricaldone per il contributo dato alla stesura di queste note)