Il conflitto di classe dietro l’ingovernabilità

di Salvatore D’Albergo

prospettivepericomunisti bannerIngovernabilità senza precedenti nell’uso del “maggioritario”

Il tipo di crisi che, dopo le elezioni, vede anche l’Italia coinvolta nelle conseguenze nefaste ed incontrollabili delle contraddizioni tra capitalismo finanziario e capitalismo industriale, rischia gravemente di cancellare la peculiarità denunciata da quanti avevano individuato nella “anomalia del caso italiano” le caratteristiche di una democrazia inconfondibile con le cosiddette “democrazie classiche”, come desumibili dalla Costituzione che – legittimando il pluralismo sociale e politico – ha dato pieno spazio al movimento operaio e ad altri movimenti suscitati dalle nuove conformazioni del capitalismo, per una combattiva e consapevole replica attestata dalle lotte, la cui acutezza e pervasività ha provocato la controffensiva sociale e politica che, dagli anni ‘70 del secolo scorso, ha avuto come insegna la “riduzione della complessità”.


Quel che, infatti, rivela l’ingovernabilità in cui è caduto il sistema politico italiano – a differenza di quanto era avvenuto nelle fasi in cui aveva operato il metodo elettorale “proporzionale puro”, e proprio mentre i partiti, sia di centrosinistra che di centrodestra, hanno farisaicamente convenuto sull’utilità di contendersi la posta delle elezioni facendo leva su un principio maggioritario improntato alla governabilità – attiene all’ineludibilità dei motivi di una replica anzitutto “sociale” ai guasti accumulatisi nel ventennio apertosi negli anni ‘90 a causa del progressivo emergere dietro il “bipolarismo” (rissoso, senza esclusione di colpi all’etica pubblica), di una sostanziale omologazione tra i due “poli”, resa clamorosamente manifesta con l’unanimismo che ha visto appaiati Pd e Pdl nella fiducia e nel sostegno delle politiche antipopolari che hanno segnato il 2012, sino al punto di provocare un grave vulnus alla Costituzione stessa, piegando la funzione di un bilancio dello Stato ispirato al “pareggio” ad un “europeismo” che ha sempre più l’impronta dell’imprimatur istituzionale del capitalismo internazionale.

La sorpresa per un esito elettorale che ha eliminato un “centrismo” evanescente – pilotato da quel Monti organico ai “poteri” forti e assecondato nella sua politica antisociale dai due partiti perciò appaiati nella percentuale di consensi come corrispettivo di un “bipolarismo” falso e deteriore – è stata determinata dall’imprevisto comparire nelle vicende fattisi assai incerte del sistema politico del Movimento 5 Stelle, configuratosi addirittura come “terzo polo”: in quanto tale sufficiente a provocare un’ingovernabilità che non ha precedenti nell’uso del principio “maggioritario”, e che può aver senso solo con il principio proporzionale “puro”, come può essere prefigurato dall’esito delle elezioni del 1976 quando si disse che i vincitori erano stati “due”, cioè DC e PCI.

Oscuramento delle istanze sociali

Sennonché, il soffermarsi tardivo sulla qualità pragmatica e sull’apparente indisponibilità a farsi integrare dalla governabilità da parte del M5S, che sta occupando e disorientando dirigenti del Pd e del Pdl, e le istituzioni a partire dal Capo dello Stato che dovrà procedere alle consultazioni con i capi-gruppo delle due Camere, rivela quanto pesi una sordità alla “questione sociale” che si è impadronita irreparabilmente degli epigoni dei partiti di massa, che non solo hanno contribuito da par loro ai guasti più eclatanti del “berlusconismo” sul terreno della morale pubblica e della disfunzione istituzionale a tutti i livelli (centrale, e decentrato), ma hanno fatto valere i tratti più negativi del principio di governabilità, sia omologandosi agli interessi del sistema delle imprese contro quelli dei lavoratori, sia concorrendo alla demolizione di istituti essenziali allo “Stato sociale” costruiti dopo lunghe aspre lotte dal PCI e dalla Cgil, divenuta a sua volta sindacato più “burocratico” che di “classe”.

Assumere come pretesto di una irrinunciabile insensibilità alla vita dei gruppi sociali più esposti alle conseguenze della crisi del capitalismo, l’eco della denuncia dei guasti della politica enfatizzata in modo più pressante e visibile dai due “leader” di un movimento che ha sostituito all’organizzazione strutturata la “rete” informatica e la partecipazione in massa di “fedeli” ai comprimari, rischia di infilare in un vicolo cieco un sistema che sta perdendo ogni parvenza di democraticità se si persevera nel calpestare principi di “democrazia sociale”, in nome dei quali i partiti organizzavano la democrazia e non puntavano al “liberismo”, e il Parlamento era stato posto al centro della rete di assemblee elettive volte a unificare le domande sociali.

Necessario ed urgente è quindi verificare la qualità dello smottamento che sta paralizzando i partiti che hanno sorretto il governo Monti, finendo per offuscarne la pretesa di una continuità post-elettorale, e soffrendo l’emergere di un M5S riuscito ad incrinare il “bipolarismo” politico, ma ancora indecifrabile nei contenuti programmatici economico-sociali da condividere negli indirizzi legislativi da attuare al più presto.

Ricostruire un partito comunista su basi di classe

Tanto più che non v’è corrispondenza tra tale affermazione elettorale, e il tramonto ormai irrecuperabile dei partiti della Federazione della sinistra, che ha tentato invano di recuperare il terreno perduto già nella precedente legislatura, dietro le insegne di un “logo” che, nel nome della “rivoluzione civile”, ha sacrificato gli obiettivi di una “rivoluzione sociale” ben più qualificanti di quelli volti a restituire legittimità alle funzioni della politica. E tuttavia non è secondario in tale contesto che l’articolazione nazionale della rappresentanza messa in cantiere dal suo “leader”, comprenda -da nord a sud- Val di Susa,Mirafiori, Marghera, Porto Tolle, Vado Ligure, Porto Torres, Sulcis,Colleferro, Taranto, Priolo,Gela, confermando come già in precedenza (con una parte del voto alla Lega Nord) il carattere fuorviante del principio “maggioritario” che induce alla ricerca di un cosiddetto “voto utile”, privilegiando la questione dello schieramento delle formazioni politiche sulla ” questione sociale”.

Quel che si impone, pertanto, in una valutazione teorico-politica che punti a riaccreditare una sinistra classista che non si adagi, come avvenuto dopo l’eliminazione della proporzionale pura, sull’elettoralismo soprattutto locale e regionale, imperniato addirittura sul “presidenzialismo” mai posto in discussione, è la considerazione estremamente grave desumibile dal fatto che nel 2013, al termine di un processo involutivo iniziato alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, l’Italia si trovi di fronte a uno scollamento profondo tra sistema politico e sistema sociale, per l’assenza di un partito politico rappresentativo del movimento operaio e di altri gruppi sociali.

L’impegno strategico che è richiesto in una congiuntura nella quale appare senza sbocco la crisi post elettorale, deve così partire dalla premessa che oggi, come nella fase precedente il 1892, quando fu fondato il partito socialista – ma con l’aggravante rispetto ad allora, che siamo in regime di suffragio universale sia femminile che maschile – il sistema politico è abbandonato alle mani di gruppi di potere ristretti, corrotti e corruttori, come con varia cadenza avviene in ogni sistema politico che si ispira alla “governabilità” per escludere la rappresentatività del proletariato e di ogni frammento debole della società. Non ci si può allora attardare a contrapporre alla democrazia “delegata” la democrazia “diretta”, la quale peraltro ha ben altro fondamento che il tipo di “democrazia partecipativa” di cui si discetta oggi, trascurando il carattere “complementare” rispetto ad una forma di governo nella quale le assemblee elettive dipendono dai rispettivi “esecutivi”, direttamente collegati con i gruppi di potere del capitale.

Si rende indispensabile in tale quadro una riflessione volta a ricostruire un partito comunista che faccia tesoro delle cause della scomparsa e/o della crisi dei partiti comunisti e socialisti, e cioè dell’inefficacia di impostazioni ideologiche che cancellino dall’agenda della lotta politica le ragioni del conflitto di classe, che sono alla base del conflitto per modificare gli assetti di “poteri” nella società, nello Stato e in generale in ogni istituzione, poiché la questione sociale posta a base della dialettica sociale e politica dalla fine dell’ottocento in poi comporta non già – limitatamente, e cioè compatibilmente con le esigenze imposte dal capitale – solo la creazione di uno “stato sociale” che eroghi servizi, con il metodo “elemosiniere” variamente adottato nel mondo. Ma reclama l’idoneità di uno Stato che sia compiutamente sociale attraverso il controllo sistematico delle attività produttive, da cui dipende la creazione del complesso dei diritti cresciuti e crescenti nello sviluppo storico della società. Occorre cioè assumere il “bene comune”, oggi ribattezzato dalle teorie economiche e giuridiche come criterio della fondazione di quei “poteri” che sono usciti dall’agenda dei partiti della sinistra di classe da quando – con un cedimento esiziale alle teorie di stampo liberista – si è scivolati sul terreno sofisticato e insidioso del ritaglio dei “diritti”, operato con “carte” nelle quali il potere dominante si compiace di “allegare” enunciati sui “diritti fondamentali” patrocinati a fianco dell’organizzazione di un potere di impresa – finanziaria industriale – che si avvale di istituzioni sovranazionali e internazionali per precludere alle forze sociali subalterne la stessa legittimità di puntare a obiettivi di trasformazione sociale e politica.

Particolarmente vistoso è in Italia il passaggio da una lotta per un potere di tipo nuovo, alla ricerca di compromessi per il “cambiamento”, con un pseudo riformismo che ha i contenuti della restaurazione capitalistica, il cui risvolto è attestato dallo snaturamento dello stesso sindacato storicamente classista, che nella sua conseguente inerzia si limita ora a enfatizzare il solo rispetto della “dignità” individuale, e non più “sociale” del lavoratore, con un’operazione mistificatoria volta a giustificare la desistenza dalla lotta per il controllo dei piani di impresa e per la direzione pubblica della produzione dei beni dei servizi.

Anche la cultura, nei limiti angusti in cui si oggi ridotta per l’abbandono dilagante della teoria “critica” del capitalismo, si sta adoperando per circoscrivere l’ambito d’intervento del potere democratico sull’uso dei “beni economici”, isolando i “beni comuni” dal resto dell’organizzazione della società, ed esaltando non già il potere di programmazione globale previsto nella Costituzione italiana, ma il cosiddetto “potere negativo” – specie per mezzo del referendum abrogativo – per insediare, a fianco dei beni privati e dei beni pubblici, i “beni comuni”, trascurando il fatto che questi ultimi trovano difficoltà ad essere riconosciuti proprio perché per legittimarli occorre non solo contenere l’incidenza dell’economicismo fatto valere a carico della società dai rappresentanti del potere capitalistico privato, ma dettare norme coerenti con la funzione assegnabile a tali categorie di beni per fini di utilità sociale.

È necessario allora il ritorno in campo di un’organizzazione politica che faccia ancora suoi i principi costituzionali che vanno dall’articolo 39 all’articolo 47 della nostra Costituzione, facendo precedere il cosiddetto “potere negativo” di resistenza referendaria dal “potere positivo” che spetta ad un Parlamento autonomo: sicché pur dando il rilievo “suppletivo” che merita al proposto bilanciamento della perdita di democrazia a livello dei governi locali, nazionali e sovranazionali, occorre imbracciar ancora – come si fece nel deprecato ‘900 – l’articolo 3, secondo comma, che nelle mani di dirigenti politici e sindacali fu un’arma usata più che dagli stessi costituzionalisti, per attivare processi necessari a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Per un nuovo blocco storico

Partendo, quindi, dal rilancio di un programma a medio e lungo termine di un’organizzazione di comunisti consapevoli della reciproca implicazione delle questioni incentrate sul lavoro, sulla cultura e la scienza, e sulla natura, valori tutti in vario modo condizionati dai “poteri forti”, va colta l’occasione di questa crisi nei contorni assunti dopo le elezioni in Italia, per prospettare l’obiettivo di un nuovo rapporto tra intellettuali e masse popolari, collegando in un blocco storico ideologia e forma materiale nella recuperata consapevolezza della necessità di un’ampia alleanza tra lavoratori e cittadini vittime delle privazioni loro imposte persino per soccorrere la crisi del capitalismo.

A tal fine occorre superare la contrapposizione odierna della visione solo “etico – politica” dei rapporti di potere, a quella che la considera inseparabile dal “contenuto materiale” degli interessi in storico conflitto e che la “globalizzazione” ha solo esteso in un groviglio di intrecci che minano la vita del 98% della popolazione, senza che da questa possano partire altro che indignazione e allarmi, pur potendosi riattrezzare la società di strumenti autonomi di potere sulla base di ben noti principi emancipatori.

Urge, pertanto, privilegiare una progettualità che iscriva la proposta di programmi congiunturali di sollievo della devastante situazione del mondo del lavoro, per precariato e disoccupazione, nonché delle piccole imprese, in un quadro di principi che puntino a intercettare le contraddizioni scatenatesi nei rapporti tra potere finanziario e potere industriale, coinvolgendo quest’ultimo entro indirizzi impegnati sul primato della politica, invertendo così la linea che con le privatizzazioni delle partecipazioni statali ha reso più facile preda del “monetarismo” europeista l’economia produttiva nel suo complesso, estraniando nel contempo i sindacati dal ruolo antagonista che deve caratterizzarli in una prospettiva di finalizzazione socialmente utile della produzione di beni, oltre che dei servizi.

In tale contesto, esigono una chiarificazione di portata generale i problemi creati da uno europeismo che oscura la natura classista dell’orientamento sin qui prevalso con la decapitazione di ogni principio democratico, non solo a livello sociale, ma anche a livello politico-istituzionale, dominato da una dilagante perversione esercitata con poteri “informali”, che con il pretesto della globalizzazione puntano a cancellare più che la sovranità dei singoli Stati, l’autonomia delle forze sociali in essi gravitanti, per ostacolarne anzitutto la capacità di proiettare in una rinnovata prospettiva di internazionalismo proletario una progettualità di emancipazione, che da locale divenga universale.

Rilanciare la lotta di classe dalla parte dei lavoratori

Lungi, quindi, dal condividere un’impostazione, che dopo il voto è stata riaccreditata, circa il cosiddetto “superamento ” delle idee-forza del ‘900, si tratta di partire dal fallimento della cosiddetta “fine della storia”, riprendendo quel rapporto con le masse che è stato miopemente abbandonato, tenendo altresì conto che occorre ed è possibile riguadagnare il terreno di rappresentatività sociale e politica che è interno alla forbice che dal 1948 ad oggi si è venuta a determinare tra il 92% e il 75% dei votanti. Non confondendo però la capacità di richiamo di un movimento come “5 stelle”, imperniata eminentemente su motivi etico-politici, con quelli di un movimento operaio che punti a ristrutturare la politica in funzione di obiettivi di trasformazione sociale.

Se la sinistra è giunta ai denunciati limiti di sopravvivenza, con uno sfarinamento dovuto alla separazione dei principi della democrazia politica da quelli della democrazia sociale, il fatto che nel bacino sociale coinvolto dal M5S vi siano segmenti significativi del mondo del lavoro, non deve indurre a perpetuare l’errore di dismettere la lotta di classe. Al contrario, tale evento non preventivato va assunto come una delle premesse del rilancio della critica del capitalismo, per sua natura onnicomprensiva di obiettivi della democrazia diretta evocata dalla concezione marxiana della “Comune”, come traguardo di una diffusa capacità di controllo sociale e politico del meccanismo di accumulazione privata della ricchezza.