L’unità di “visibilità” e “alternativa” nella lotta politica per la democrazia

di Emiliano Alessandroni

prospettivepericomunisti bannerLa situazione politica attuale, sia nazionale che internazionale, presenta un intreccio di contraddizioni ed una complessità che dovrebbe indurre tutte le forze progressive ad una massima prudenza valutativa. Si sa infatti che quanto più le contraddizioni si intrecciano e il panorama si aggroviglia tanto più queste forze divengono soggette a divisioni interne. Ma se in un luogo una forza A si allea con una forza B per realizzare o avvicinarsi alla realizzazione di un programma C, e in altro luogo la forza A lotta contro la forza B per realizzare o avvicinarsi alla realizzazione del programma C, in questo caso sarà il programma C a costituire l’essenziale e il termine di unità (non già il rapporto fra A e B), e la contraddizione non si formerà all’interno della forza A (per il quale il programma C costituisce la costante) ma all’interno della forza B dal cui lato il programma C è l’incoerenza e la contraddizione. Tuttavia la medesima contraddizione potrà investire la forza A qualora questa non fosse in grado di scorgere la frattura interna a B e pretendesse di estendere all’Universale una situazione particolare. 


Nel nostro paese, lo scenario di fondo presenta un assetto nel quale, le maggiori forze politiche legate, sia pur in modo diverso, alla struttura sociale esistente, sono quelle che si sono alternate al governo negli ultimi vent’anni. Esse costituiscono le garanti amministrative e giuridiche alla deriva di un modello economico-sociale che può essere riassunto schematicamente in due punti fondamentali: massacro sociale all’interno e sudditanza neocolonialistica all’esterno. Una forza realmente democratica nella sostanza, una forza comunista volta alla difesa di quei soggetti nazionali e internazionali che più subiscono la ferocia di un tale modello, non può che costituirsi come, non soltanto alternativa a quelle formazioni politiche, ma in radicale contrapposizione ad esse, intensificando significativamente la propria presenza nei luoghi di conflitto. Il fenomeno Cinquestelle dovrebbe farci comprendere come le condizioni oggettive per un percorso separato e oppositivo a quello dei “garanti sistemici” esistano nel nostro paese, previo un lavoro politico meticoloso e costante. D’altro canto, in una fase di crisi acuta come quella in cui stiamo vivendo, che squaderna sotto tutti i punti di vista le contraddizioni lampanti e gli inesorabili cedimenti dell’intero modello occidentale, risulterebbe alquanto dannoso, per qualunque forza progressiva, sostenere formazioni governative nella loro, inevitabilmente violenta e classista, opera di ristrutturazione. Quelle formazioni si trovano ora nel loro maggior momento di crisi e stanno perdendo via via tutto il loro mordente politico e culturale, stanno perdendo fette di credibilità. Non sta a noi restituirgliela illudendo le vaste masse che la carneficina sociale e il dissanguamento culturale in corso vengano attuati nel loro bene. Le vaste masse e i lavoratori forse non avvertono spontaneamente la profondità della verità, ma a lungo andare avvertono la pesantezza dell’inganno, donde i differenti fenomeni di apoliticismo, di leghismo e di grillismo, i quali ci illustrano le forme più variegate e degenerative che la rabbia e il disagio possono assumere in assenza di una chiara formazione comunista in grado di mostrare (nella specificità degli scontri concreti) la propria unicità e la propria natura alternativa rispetto alle forze in campo. “Visibilità” e “alternativa” credo debbano essere i termini chiave che orientino il lavoro prossimo dei comunisti, tenendo presente che la realizzazione di soltanto uno delle due a discapito dell’altro comporterebbe la propria stessa dissoluzione. È inutile essere alternativi se si è invisibili così come è inutile essere visibili senza essere concretamente alternativi. Sul terreno della oggettiva difficoltà a tenere uniti questi due punti fondamentali mi pare si siano consumate le recenti divisioni, con le rispettive accuse di “purismo” da una parte e “opportunismo” dall’altra. Mentre tuttavia infuriavano queste accuse interne, all’esterno i conflitti reali della società vivevano e si moltiplicavano, cosicché i comunisti perdevano ulteriori possibilità per tornare a rimettere insieme concretamente le due legittime esigenze di “visibilità” e “alternativa”, recandosi sul luogo fisico di quei conflitti (garantendo la propria presenza carnale) e prendendo parte, non soltanto verbalmente, in ciascuno di essi. Così facendo, o meglio, così non facendo, non si è stati né “visibili” né “alternativi”, e queste due esigenze hanno finito per crescere di volume increspando le divisioni fra chi sentiva maggiormente il bisogno della prima e chi avvertiva più quello della seconda. Rivoluzione Civile poteva costituire una trovata in extremis che tenesse in qualche modo uniti i due bisogni, con tutti i compromessi della contingenza. Sulla sua sconfitta elettorale tale “tempo in extremis”, ha sicuramente pesato, lasciando più il sentore di un ripiegamento forzato che non di un progetto meditato, voluto e profondamente sentito. Così come avrà pesato la scarsa convinzione delle forze politiche stesse che componevano quella lista, forse non impegnate al massimo nella sua realizzazione e per il suo successo. Ma ha pesato anche, io credo, il suo “formalismo”, la sua inadempienza a costruire nei luoghi di lotta quell’unità di “visibilità” e “alternativa” tanto auspicata. Ne è conseguito che quegli spazi, in alcuni casi sono stati lasciati vuoti e i loro soggetti abbandonati a se stessi, in altri casi sono stati riempiti da forze altrui che hanno impresso direzioni talvolta reazionarie e talvolta certamente progressiste ma nell’alveo di un’identità politica tutta interna alle compatibilità sistemiche. Se Rivoluzione Civile non vuole rischiare di ripetere la sconfitta delle scorse elezioni dovrebbe cominciare a tradurre in pratica quella unità di “visibilità” e “alternativa” di cui vuol farsi in qualche modo promotrice. Sulle questioni concrete del lavoro e della produzione, della guerra e delle spese militari, dell’immigrazione e delle relazioni internazionali, della ricerca e della crescita culturale, dovrebbe costituire l’avanguardia della protesta (oltre che della proposta). Essa non dovrebbe avere un solo rappresentante al di fuori delle battaglie reali che la società civile conduce o tenta, fra mille tentennamenti, di condurre. Che si cominci a lavorare e a seminare, con intelligenza, impegno e tenacia; le elezioni saranno soltanto il riscontro finale, la raccolta dei frutti del lavoro precedentemente svolto, il quale ha un disperato bisogno di riconquistare tutto quello spirito combattivo smarrito nel vortice delle disquisizioni tattiche, come della rincorsa ai compromessi impossibili.

Il lavoro politico deve, infine, svilupparsi assieme ad una profonda connessione sentimentale con quelle masse sociali di cui la formazione in questione vuole farsi, in qualche modo, avanguardia e portavoce. Ma per rendere tale connessione sentimentale adeguatamente profonda è altresì necessario instaurare con quel mondo, altrimenti privo di autentica rappresentanza, una connessione fisica: si richiede, in sintesi, un rapporto di scambio reciproco che veda la formazione politica entrare nelle fabbriche, nelle officine e nei luoghi di produzione, e quelle realtà entrare all’interno della formazione politica – non già in modo passivo ma prendendo parte alla sua direzione. Una ricca personalità come Antonio Gramsci, dalla quale il mondo ha da imparare oggi forse ancor più che in passato, sapeva bene quanto l’immane sviluppo delle sovrastrutture verificatosi nell’età moderna rendesse in essa assolutamente indispensabile la battaglia per le idee, ma era nondimeno convinto del fatto che «la lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile».1 Come che sia, una formazione che ambisca ad essere visibile e alternativa non può contentarsi di intraprendere una battaglia meramente culturale, ma deve immergere mani e piedi nelle lotte reali che il paese vive, talvolta seguendo, talvolta criticando e talvolta anticipando le masse lavoratrici, ma mai rimanendo fisicamente ed emotivamente estranea ad esse, a meno di non voler vedersi condannati a una deprimente condizione di perenne sterilità.

1. Gramsci, Quaderni del Carcere, Einaudi 2001, p. 286.