La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto

soldi-svizzera-corbis-130di Massimiliano Ay, Segretario del Partito Comunista della Svizzera Italiana

#politicanuova,
Quadrimestrale di approfondimento del Pc della Svizzera Italiana

Al di là delle cifre sulla quantità di lavoratori frontalieri presenti sul nostro territorio, il dato politico che ci deve interessare è il fatto che essi risultano attivi professionalmente in settori economici tendenzialmente a basso valore aggiunto. Ovviamente assistiamo anche a una “fuga di cervelli” dall’Italia che vanno a sopperire lacune in settori di punta nella Svizzera italiana, ma la grande maggioranza dei lavoratori frontalieri non si scosta da quanto sopra. Ciò ci deve spingere alla riflessione e come marxisti dobbiamo capire come delineare una via d’uscita da questa impasse dove l’effetto di sostituzione della manodopera locale con operai più facilmente ricattabili sta creando un serio malessere sociale a tutto vantaggio dell’estrema destra.


Dopo il 9 febbraio siamo in una nuova fase storica?

A seguito dell’accettazione in votazione popolare dell’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” lo scorso 9 febbraio 2014 i rami ad alto valore aggiunto, come quello dell’industria delle macchine, si ritrovano politicamente indeboliti a Berna, rispetto agli ambiti che creano invece meno ricchezza, come l’agricoltura. I comparti orientanti all’export avranno problemi legati ai costi di reclutamento del personale, cosa che potrà determinare un rincaro dei prodotti, rendendoli meno competitivi sul mercato internazionale. Ecco perché, in questo contesto, la sinistra di classe deve saper essere all’altezza della nuova fase storica e spingere affinché il Paese non solo si apra a nuove forme di cooperazione con potenze emergenti, ma sappia riformare anche il suo modello economico e formativo. La promozione, insomma, di un Paese che, a tutto vantaggio dell’occupazione, dia risalto alla produzione interna di punta, contrastando invece un mercato del lavoro unicamente concentrato sull’economia speculativa e finanziaria, nonché su servizi e professioni non concorrenziali nell’ambito di un’economia globale che – per quanto non ci piaccia – è oggi il dato materiale da cui non è realisticamente fattibile scostarsi, perlomeno sul corto periodo. È evidente, però, in questo contesto, che occorre procedere con una prassi riformatrice atta a regolamentare i flussi di capitali e a favorire il più possibile realtà a chilometro zero. Nel contempo dobbiamo essere capaci di vedere in questa situazione anche una nuova sfida per costruire un processo rivoluzionario del XXI secolo attraverso una nuova cooperazione multilaterale di tipo win-win, in cui la Svizzera possa eccellere: non sarà insomma una sterzata “sovranista” fuori tempo massimo che salverà le sorti della nostra economia e del benessere della classe lavoratrice residente! E nemmeno servirà a qualcosa fomentare la guerra fra poveri e l’astio che un’aristocrazia operaia vorrà esercitare drammaticamente su altri settori della medesima classe, come gli immigrati.

Quale alto valore aggiunto?

La Svizzera non può insomma fare altro che orientarsi nello sviluppo di settori economici e produttivi ad alto ed altissimo valore aggiunto (produzione e logistica avanzata, medical devices, sensoristica e telemetria, scienze computazionali, biomimicry, health trives, ecc.). Nel solo Canton Ticino esistono già alcune aziende interessanti da questo punto di vista: AGIE, IDSIA, Diamond, Synthes, Medacta. Realtà aziendali che potrebbero, a dipendenza del contesto e dei rapporti di forza, anche essere nazionalizzate come il Partito Comunista aveva ipotizzato nel 2008 a Losone in occasione della vertenza sindacale presso AGIE. In tal senso lo Stato deve investire fortemente nel settore della ricerca e in questa direzione può essere letto il rilancio produttivo delle Officine ferroviarie di Bellinzona con il progetto del Centro di Competenze. Per innovare a livello di prodotto occorre però un’accurata conoscenza dei processi produttivi, con conseguenti costi e rischi imprenditoriali non indifferenti. Proprio per questo il ruolo dello Stato diventa fondamentale: non certo come garante in caso di perdita o per ridurre le imposte al padronato, quanto piuttosto per assumere esso stesso un ruolo di primo piano nello sviluppo economico, che è poi il segreto su cui poggia, sul piano globale, l’emersione dirompente della Cina. Per poter spingere sulla ricerca, lo Stato deve però dare priorità all’innalzamento del livello culturale e formativo della cittadinanza intervenendo cioè sul profilo del lavoratore.

Orientarsi verso una società dei saperi

La proposta politica dei comunisti deve essere quindi quella di orientarsi verso «una società dei saperi nella quale assumano un’importante centralità dei poli d’eccellenza situati nei settori ritenuti strategici. Tali poli permetterebbero delle convergenze di carattere dialettico con le micro e piccole imprese di cui oggi ancora abbondiamo, permettendo di dare vita a un percorso virtuoso di know how nei più disparati settori, attraverso la crescita di distretti industriali che dovrebbero segnare un ritorno alla preminenza del capitale effettivo. Ciò permetterebbe di inserirsi all’interno di una divisione internazionale del lavoro rispettosa del multipolarismo che sta emergendo, attorno al quale è necessario modellare l’uscita dalla crisi»1. Una posizione, questa, che se adeguatamente e creativamente riconosciuta come strategica dal Partito Comunista, può rappresentare addirittura un primo passo verso una almeno parziale programmazione e socializzazione dell’economia nazionale stessa2.Nell’ottica di garantire una Svizzera prospera, con il minor numero di disoccupati possibile e capace di essere protagonista attiva della costruzione di nuove relazioni di cooperazione economica internazionale a favore di uno sviluppo equo e sostenibile, una profonda riforma anche del nostro modello formativo oltre che professionale va progettata con sempre maggiore urgenza. Non si può insomma continuare con una situazione in cui la Confederazione è costretta ad assumere oggi medici dalla Germania e ingegneri dall’India, perché non ne dispone di un numero sufficiente e adeguatamente qualificato. È impellente, insomma, creare posti di lavoro capaci di avere futuro, in cui il lavoratore residente altamente qualificato, formato, competente e preparato possa essere impiegato con un salario adeguato, senza temere forme di concorrenza al ribasso. Insomma:investire nell’ambito formativo non solo crea cittadini con consapevolezza democratica e spirito critico (evitando le involuzioni autoritarie, reazionarie e qualunquiste tipiche dei momenti di crisi), ma innalza le qualità della forza lavoro indigena permettendole di migliorare il livello produttivo senza temere la concorrenza estera, sia quella della manovalanza frontaliera, sia quella sempre più pressante dei paesi emergenti, con un costo del lavoro più basso e che già oggi stanno dimostrando di essere un’alternativa al declino irreversibile dell’Occidente, ma che (ancora) non dispongono del know how tecnologico in vari ambiti su cui il nostro Paese può invece far valere un vantaggio non indifferente, purché si abbandonino pratiche egemoniche di tipo neo-coloniale. Continuare a investire invece in settori professionali a basso valore aggiunto; quei ruoli cioè che possono svolgere benissimo operai di altri paesi il cui il “costo” del lavoro è – purtroppo – inferiore, sarebbe una scelta potenzialmente disastrosa.

La formazione non deve dipendere dalle esigenze padronali di corto periodo

Se nei momenti di crescita la concorrenza capitalistica avviene anche con l’introduzione di nuove tecnologie nell’ottica di accrescere la produttività, oggi ci troviamo in una fase storica diversa, in cui il capitalismo occidentale pretende di uscire dalla sua crisi di sovrapproduzione distruggendo forze produttive e intensificando lo sfruttamento di classe dei salariati (dai tagli alle pensioni al blocco dei salari, passando anche per le delocalizzazioni) piuttosto che concentrarsi sull’innovazione. «La produzione e riproduzione del sapere scientifico nei paesi a capitalismo avanzato è adesso per molti versi bloccata: la crisi delle università e degli enti di ricerca, assieme agli attacchi al mondo della scuola e della cultura, sono sintomi di una incipiente desertificazione dei luoghi della formazione delle forze produttive avanzate»3. Da un’ottica marxista risalta come estremamente attuale la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive (cioè il fatto che potenzialmente vi potrebbe essere una estensione quantitativa di manodopera qualificata) e l’inadeguatezza dei rapporti di produzione. In pratica: un’economia di punta necessita di un adeguato livello formativo. Tuttavia la crisi capitalistica accentua la mancata armonizzazione fra forze produttive e rapporti di produzione, il che si traduce in una pauperizzazione della classe lavoratrice (e conseguentemente di una decadenza dell’aristocrazia operaia individuata da Lenin), un allargamento del disagio sociale e quindi del sottoproletariato. Rendere il Paese competitivo (nella declinazione socialista del termine) dal punto di vista economico (e quindi occupazionale) è un processo che deve partire non dalla sottomissione della scuola alle esigenze di corto periodo del padronato, ma al contrario istituendo l’obbligatorietà scolastica fino ai 18 anni, favorendo al massimo una istruzione di grado liceale per ognuno e gettando le basi per una futura formazione politecnica che sappia superare alla base la divisione fra lavoratore manuale e intellettuale. Per implementare una tale riforma occorre anche procedere sul piano pedagogico, abituando i ragazzi al lavoro collaborativo e all’attiva partecipazione sindacale. Va insomma, finalmente, messo in discussione il modello di formazione professionale duale attualmente in vigore a solo vantaggio del padronato, cosa che già nel 2005 veniva proposto invano dal Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA) con l’invito – che tuttavia qui non ci pare più sufficiente – a sostituirlo con un sistema a tre pilastri, il quale, oltre agli attuali due (scuola e azienda), prevedesse un terzo elemento nella costituzione di laboratori pubblici di tirocinio. La carente formazione nell’ambito del tirocinio è la causa dei problemi che oggi si riscontra con vari giovani lavoratori neo-qualificati, incapaci spesso di assumersi responsabilità e di lavorare in maniera autonoma: conseguenza anche qui di un modello educativo paternalista, che toglie ogni spazio di reale autogestione da parte degli allievi e che, in sostanza, li deresponsabilizza a tal punto da renderli quasi degli automi.

Manca …la classe dirigente!

Ciò che ha reso grande il vecchio Partito Comunista Italiano è stato l’essere un vero e proprio motore di emancipazione sociale delle fasce più umili della popolazione. Ma ciò proprio perché le formava e riconosceva il suo ruolo educatore: dalle Case del Popolo alla scuola quadri delle Frattocchie! L’adeguata preparazione si inseriva in una dinamica disciplinata e organizzata di partito o di sindacato, in cui forgiare la propria coscienza e una “Weltanschauung” di classe, necessaria per assurgere a ruoli di responsabilità nello stesso Partito o per sperare di ambire ad incarichi politici. Oggi invece abbiamo una classe operaia in costante processo di pauperizzazione a seguito della crisi e delle politiche di “austerity”, che viene per di più lasciata a se stessa e che conseguentemente è aggregata da alcuni partiti – la Lega dei Ticinesi, ad esempio (non a caso attiva contro la Kultura) – in un’ottica (spesso virtualmente) “anti-sistema” che nulla ha di emancipatorio ma che ne innalza i componenti a donne e uomini “veri”, gli unici che conoscono la realtà. Si sta così formando una nuova pseudo-classe dirigente di livello estremamente basso che non fa bene né al processo decisionale politico, né all’economia del Paese, né in ultima analisi alla stessa democrazia. E noi marxisti sappiamo quanto «la lotta per la democrazia è parte fondamentale della lotta per il socialismo»4. La politica anzi si converte «in azione senza prospettiva, schiacciata in un eterno presente (…). L’esercizio delle libertà democratiche ne risulta svuotato, ciò che preclude immancabilmente al loro restringimento (…) invocato in nome della ‘politica del fare’ di cui si riempiono la bocca i tribuni»5. Si viene a delineare persino un deficit nella formazione degli statisti, ma non solo: a risentirne è pure la formazione dei gruppi dirigenti dei sindacati e dei partiti operai. Non è un caso se la sinistra ticinese ha difficoltà a disporre di giovani e produce sempre più leader insipidi, prevedibili e banali, quando non sfacciatamente carrieristi. Peraltro tale situazione svilisce la credibilità stessa delle istituzioni borghesi, e ciò – per quanto un comunista possa auspicarlo – in un contesto di forte crisi sociale ed economica e senza un’adeguata coscienza di classe rivoluzionaria (ciò significa partiti comunisti forti, sindacati radicati, e movimenti democratici di massa presenti), può solo dare origini a svolte autoritarie e a fenomeni neo-fascisti. Ci ritroviamo così con una parte di sottoproletariato e di una porzione di classe operaia in forte decadenza sociale, abilmente manovrate da una parte della borghesia, che vive secondo alcuni miti costruiti ad arte da una narrazione collettiva spesso di tipo nazionalistico e sciovinistico, dove la scuola ha evidentemente delle forti responsabilità.

Investire nella formazione significa salvaguardare la democrazia

Con il termine “sottoproletariato” Karl Marx indicava quella parte del proletariato privo della sua connotazione di classe e composto da chi, a causa dell’eccedenza di manodopera, era disoccupato cronico o veniva occupato irregolarmente, finendo per essere emarginato dai rapporti sociali relativi al processo produttivo da cui erano esclusi. Il sottoproletariato in Marx è considerato parassitario e con una mentalità debole, antisociale e individualista, che la borghesia sfrutta nei momenti decisivi della lotta di classe contro i lavoratori organizzati e coscienti. Oggi porsi il problema di come evitare che le forze conservatrici e reazionarie prendano il sopravvento e ancora utilizzino i sottoproletari per i loro sporchi scopi diventa quindi fondamentale: occorre anzi sollecitare la partecipazione e sviluppare il potenziale di lotta degli emarginati. Per farlo c’è però bisogno di una strategia: la già citata obbligatorietà scolastica fino alla maggiore età, ma anche la formazione politica e il coinvolgimento di massa fin da giovanissimi nei partiti e nei sindacati, la responsabilizzazione dei giovani nel servizio civile (non certamente nel servilismo militare!), il potenziamento delle materie umanistiche soprattutto nelle scuole professionali (dove attualmente la cultura generale è a dir poco umiliata) sono dei primi passi da intraprendere con una certa urgenza e la scuola pubblica deve abbandonare il suo essere una realtà “ovattata” e anzi favorire il confronto politico dialettico nell’ambito educativo. In questo senso i primi ad aver bisogno di tanta formazione politica sono un valanga di neo-insegnanti che, più che intellettuali critici, sembrano tecnici o ligi funzionari.

NOTE
 
1 Vitali, F.; M. Tagliaferri (2014): “I problemi del keynesismo nel riuscire a incidere nella struttura della società capitalista”, in: #politicanuova, nr. 3, febbraio 2014.
2 Cfr. le Tesi 3.2.6 e 3.2.7 del VIII Congresso della Gioventù Comunista dell’Ecuador, 9-11 agosto 2013.
3 Martocchia, A. (2011): “Che cos’è l’intellettuariato”, G.A.MA.DI.
4 Cunhal, A. (1967): “La questione dello Stato – Questione centrale di ogni rivoluzione”, in: “O militante”, nr. 152, novembre 1967, pp. 17-22.
5 Arena, A. (2013): “Dove vanno gli italiani?”, Nemesis