Storia del partigiano Alimiro, resistente in Val d’Aosta

Mario Pellizzari militò in Giustizia e libertà. Il Comune di Ivrea pubblica il suo diario: una semplice testimonianza diretta, in quanto tale unica ed inestimabile

Alimiro. E chi lo conosce, un nome così poi. Ma dalle sue parti è noto, un protagonista, un personaggio, una personalità da cittadinanza onoraria. Quando nel 1977 muore, al momento dei suoi funerali, una corona d’alloro viene lanciata nella Dora, da quello stesso ponte che con la sua storia c’entra parecchio. E la sua storia è la storia di un partigiano, nome di battaglia Alimiro, per l’anagrafe Mario Pelizzari, di Ivrea, famiglia operaia, autodidatta, studente serale, disegnatore alla Olivetti, mazziniano, antifascista, azionista. Partigiano di Gl, Giustizia e Libertà.

Il suo Diario (“Le memorie di Alimiro”, Enrico editore) è pubblicato a cura del Comune di Ivrea, che gli ha anche conferito appunto la cittadinanza ad honorem. La foto sul risvolto di copertina ci rimanda un viso sorridente, un giovane dall’espressione aperta e i baffi scuri. Il Diario che ha lasciato non è certo un capolavoro letterario, e nemmeno un libro di storia; è solo una testimonianza diretta e in quanto tale unica ed inestimabile.

Lo scenario è la Resistenza in Val d’Aosta, gli anni sono quelli cruciali ’42-45, l’angolo di visuale non è quello di un “fazzoletto rosso”, un combattente delle formazioni garibaldine di matrice comunista e socialista, ma quello di un militante del Partito d’Azione, che lotta in uno schieramento diverso e che coltiva ideali mazziniani. Una figura singolare, Alimiro, che dimostra come i valori della Resistenza fossero trasversali, e coinvolgessero sensibilità e strati anche lontani tra loro, ma capaci di incontrarsi sul terreno di comuni ideali. Giustizia e Libertà, per lui, Alimiro, non furono mai parole vuote, come non lo furono per i ragazzi del comandante Bulow, quelli che combattevano credendo anche nel socialismo e seguivano Marx piuttosto che Mazzini. Non importa, in quei giorni l’incontro e l’intesa ci furono, Longo e Parri combatterono insieme.

Mario Pelizzari – ragazzo di famiglia modestissima che va a scuola fino alla VI e a 12 anni già lavora da piccolo fabbro; che si guadagna poi, durissimamente, a furia di corsi serali («per frequentarli facevo tutte le sere quattro chilometri a piedi, andata e ritorno») un posto da disegnatore in una azienda di prestigio come l’Olivetti – incontra Mazzini, non Marx, quando è appena ventenne, e il fascismo (siamo nel ’22-23) già spadroneggia con la sua violenza. E’ ciò che avviene sotto i suoi occhi a spingerlo al disgusto e alla ribellione, «sentivo – scrive – una tale avversione a quel regime mussoliniano ed al re che, dopo una lunga discussione, decisi di iscrivermi al Partito Mazziniano». E’ un gran passo per Mario Pelizzari, una scelta vera: «Studiai Mazzini, trovai che le sue idee erano conformi al mio spirito: era un rivoluzionario, ma per una rivoluzione fatta con criterio».

Poi l’incontro con Riccardo Levi e l’ambiente di Gl, conosce Aldo Guerraz, Giorgio Agosti, Mario Andreis, i fratelli Galante Garrone; le prime azioni già due giorni dopo la caduta di Mussolini, nel ’43. «Il 27 luglio – racconta lo stesso Guerraz – riuscimmo a smuovere la gente. Alimiro ed io, con scalpello e martello giriamo per la città a tirar via da tutti gli edifici pubblici tutte le insegne del fascio littorio. Arriviamo fin al Municipio e obblighiamo il podestà ad abbattere i due fasci che erano esposti sul balcone».

Il ragazzo che faceva quattro chilometri a piedi per andare alla scuola serale, è cresciuto. In agosto viene eletto come rappresentante degli impiegati nella ricostituita Commissione interna della Olivetti; in settembre, subito dopo il disastroso armistizio, è incaricato dal Cln appena costituito di portare in salvo in Svizzera un gruppo di ebrei in fuga. Intanto, a Ivrea e dintorni è già nata la prima banda partigiana, il nucleo che presto diventerà la 76ma Brigata Garibaldi; mentre, contemporaneamente, al comando di Pedro Ferreira, prende corpo una formazione Gl. E’ la primavera del ’44, la storia del partigiano
Alimiro comincia da qui.

Specialità sabotaggio. «Ritenevamo che gli atti di sabotaggio, se bene concepiti, studiati e bene eseguiti, potevano dare un forte contributo alla guerra e risparmiarci bombardamenti aerei, sempre pericolosi per la popolazione e dannosi per il nostro patrimonio nazionale. Il gruppo iniziale fu composto da una dozzina di uomini… Cominciammo con delle esercitazioni notturne. Un giorno ci fu offerto una cassa di cheddite…».

Il mazziniano e la dinamite. Così scrive nel Diario: «La linea che vogliamo interrompere è particolarmente importante perché fornisce parte dell’energia della Valle d’Aosta alla rete di Torino». E togliere l’energia a Torino «significa fermare una non trascurabile parte della produzione bellica tanto necessaria al nostro nemico».

Il sabotaggio è un lavoro di fino, uno di quei lavori che vanno fatti presto e bene, guai a sbagliare. E richiedono un gran fegato. Le descrizioni di Alimiro sono da film. «Alla mezzanotte circa siamo sul posto. Immediatamente ci portiamo sotto una pianta, nel prato bagnato, e lavoriamo l’impasto. Ciò fatto procediamo alla messa in opera dell’esplosivo… Questa è la prima volta che disponiamo del nuovo plastico inglese… Sono le 4 e 1/4, il cuore mi batte forte forte. Avrò fatto il lavoro bene? Un lampo improvviso e poco dopo uno scoppio formidabile». Fatto. «Brindiamo. Il giorno appresso presidiavano i pali caduti le camicie nere con i mitragliatori».

Il più bel colpo di Alimiro e del suo gruppo è lo scoppio al Ponte ferroviario di Ivrea, saltato in aria a tempo debito. «Di fronte all’hotel Dora riposava il grande famigerato Fumai, comandante in capo degli assassini della Decima Mas. Appena di là dal ponte vigilava la sentinella della caserma Valcacino. Quando tutto fu pronto, schiacciammo le matite di mezz’ora e cominciammo la ritirata, questa volta però a passo deciso perché al lume delle lampadine tascabili. La città ebbe un risveglio piuttosto brusco ed inaspettato. Pezzi di lamiera e tralicci svolazzarono per l’abitato». Naturalmente cessò il transito dei treni che rifornivano il carbone cox necessario per gli alti forni e la Cogne (fabbrica siderurgica ndr) fu obbligata a fermare alcuni reparti «con grave danno alla fabbricazione dei siluri, delle bombe anticarro, delle canne da cannone».

Pietà l’è morta, erano quei tempi. Segna sul suo diario Alimiro: «Dopo la cattura dei compagni della 76ma e la loro condanna a morte, Ivrea ebbe un periodo di massimo terrore». Almeno dieci tra partigiani e sabotatori fucilati o impiccati nel giro di due giorni. E «le bombe da costruire, questa volta, sono la bellezza di 130…».

Inseguendo i suoi ideali mazziniani. Lottando per quella società libera – ma anche giusta – che aveva sognato fin da ragazzo.

Non morirà in battaglia, il Pelizzari. Nel 1949 lascia l’Italia e se ne va lontano, in Brasile. A prendersi cura dei bambini di strada.

Il partigiano Alimiro, ex mazziniano.