La malattia cronica del non voto

C’è non voto e non voto. Quello di cui si discute in questi giorni sul manifesto è un astensionismo militante, il prodotto di decisioni individuali arrabbiate e meditate; è quindi, direi, un non voto frutto della passione, o meglio della troppa passione. Il meccanismo è quello descritto da Albert Hirschman in Felicità privata e felicità pubblica (Il Mulino, 1983): “una volta scoperto di non poter esprimere i propri sentimenti sugli affari pubblici con l’intensità con la quale sono sperimentati, è probabile che molti perdano l’interesse ad esprimerli del tutto” – almeno nel voto, appunto. Poi c’è l’altro non voto, l’assenteismo ben più massiccio e in continua crescita che è invece frutto della estraneità alla politica e dell’indifferenza. I due fenomeni di fuga dalle urne rischiano, nei fatti, di fondersi e di avere conseguenze devastanti sulla democrazia italiana.

Anche l’assenteismo di massa ha i suoi celebratori, non dimentichiamolo: da quando ha cominciato a manifestarsi nel nostro paese, sono emerse anche qui le giustificazioni intellettuali della sua bontà. Più volte, autorevoli commentatori di autorevoli quotidiani hanno sostenuto che votare numerosi è, in fin dei conti, pre-moderno e un tantino autoritario. Se ricordo bene, qualcuno ha anche affermato che l’elevata affluenza alle urne dei primi decenni della vita repubblicana era un retaggio totalitario del regime fascista, di cui finalmente ci stiamo liberando. Il non voto sarebbe dunque il segno della raggiunta maturità di una democrazia moderna; dovrebbe tranquillizzarci, non allarmarci. Guardate gli Stati Uniti, si dice, con il loro 50% di partecipazione alle elezioni presidenziali, con il 36% di partecipazione alle elezioni congressuali di medio termine.

Credo che guardare oltre l’Atlantico sia senz’altro una buona idea, ma per ragioni opposte: non per tranquillizzarci, bensì per allarmarci. Negli Stati Uniti la bassa partecipazione elettorale ha caratterizzato la vita politica per gran parte del Novecento, ed è stata oggetto di indagini empiriche e riflessioni teoriche di cui solo quelle ottimistiche e rassicuranti hanno varcato l’oceano e sono diventate senso comune anche in Europa (riprese dai commentatori sopra citati). Penso alla tradizione che è iniziata negli anni Cinquanta, quando Seymour Martin Lipset scrisse: “E’ possibile che il non voto sia oggi, almeno nelle democrazie occidentali, un riflesso della stabilità del sistema”, una prova della soddisfazione dell’elettorato per lo stato delle cose. Penso alla definizione che fu coniata allora di “politica della felicità” (chi è felice non vota).

Queste, tuttavia, non sono state le uniche voci nel dibattito statunitense. Per altri osservatori l’assenteismo elettorale è un aspetto preoccupante della democrazia americana che è diventata, secondo un editoriale del New York Times, una “democrazia dimezzata”. Ma già nel 1960 il politologo E.E. Schattschneider scriveva che il non voto è il “ventre molle” del sistema: il risultato di un sistema politico-sociale che limita le alternative politiche a disposizione degli elettori, e che emargina schiere consistenti di cittadini che non si sentono né rappresentati idealmente né difesi nei loro interessi. Michael Harrington, nel celebre pamphlet L’altra America (1962) trovava nella relazione fra povertà e non voto una delle ragioni per cui negli Stati Uniti i poveri sono politicamente invisibili.

Le analisi pessimistiche di questo tipo sono confermate dalla ricerca sociologica e storica. Dal punto di vista sociologico, Harrington ha ragione. L’assenteismo non è socialmente neutro; è presente in tutti gli strati della popolazione, ma acquista un carattere patologico nelle sue fasce più povere, meno istruite e più giovani. La correlazione fra reddito e istruzione da una parte, e partecipazione elettorale dall’altra, è diretta e assai visibile. Accade così che, in un elettorato presidenziale che dalla metà degli anni Settanta comprende meno del 55% degli aventi diritto, chi ha redditi molto bassi voti al 45%, chi ha redditi molto alti all’85%; chi ha un’istruzione elementare voti al 38%, chi ha un’istruzione universitaria superiore voti al 91%. Insomma, a non votare sono (viene da dire con il linguaggio delle élites ottocentesche) le “classi inferiori”.

L’uso del linguaggio ottocentesco non è gratuito. Dal punto di vista storico, infatti, la diserzione delle urne non è un dato naturale della democrazia americana. Nel secolo scorso le cose stavano diversamente. L’affluenza alle elezioni presidenziali raggiungeva percentuali dell’80-85%, e gli elettori dei ceti popolari votavano di più di quelli delle classi superiori. Era la democrazia trionfante cantata da Walt Whitman nella quale, malgrado gli alti livelli di partecipazione, sarebbe difficile trovare semi autoritari o retaggi totalitari. Eppure, anche allora, molti intellettuali non erano contenti. Temevano la tirannia della maggioranza, soprattutto perché la maggioranza includeva, appunto, le classi inferiori. Desideravano un elettorato più ristretto e più “istruito”.

Dai primi del Novecento in poi, questo desiderio si è realizzato. La partecipazione è diminuita con continuità, fino a scendere in picchiata negli ultimi trent’anni. Si è anche stratificata socialmente, creando un universo elettorale attivo che è in stragrande maggioranza middle-class. Di questa inversione di tendenza esistono delle cause, che gli storici hanno individuato nei cambiamenti avvenuti ormai un secolo fa: il declino dei partiti di massa (queste grandi agenzie di mobilitazione popolare); la personalizzazione della politica; l’aumento del potere dell’esecutivo; il passaggio da una democrazia rappresentativa di interessi diffusi a forme di rappresentanza di interessi organizzati forti; la concentrazione del potere in organi di governo centralizzati e burocratici, poco o niente sensibili all’influenza elettorale.

Se questi cambiamenti appaiono familiari a chi ha vissuto le vicende italiane degli ultimi anni, è giusto che sia così: perché, in effetti, parlano anche di noi. Che la fuga dalle urne abbia anche in Italia caratteristiche sociali di tipo “americano”, forse è presto per dirlo. E tuttavia uno studio recente di Renato Mannheimer e Giacomo Sani (La conquista degli astenuti, Il Mulino, 2001) suggerisce che la tendenza possa essere proprio in quella direzione. Anche nel nostro paese gli astensionisti cronici sono un fenomeno trasversale, ma con “accentuazioni” fra i cittadini più giovani, meno istruiti, di reddito più basso. Queste accentuazioni sono oggi marginali, ma l’esperienza americana dovrebbe spingerci a porci delle domande sul loro approfondimento futuro. Le domande più serie riguardano ovviamente il futuro della democrazia; ma altre, comunque di qualche importanza, riguardano i termini del dibattito pubblico in cui ne discutiamo.

I commentatori conservatori che trattano il non voto con gioiosa benevolenza ripropongono da noi un paio di paradossi che sono evidenti negli Stati Uniti, e che sono piuttosto inquietanti. Il primo paradosso riguarda la dottrina della “politica della felicità”: a essere più felici, più soddisfatti di come va il mondo sarebbero proprio coloro che meno ne sono premiati, i poveri appunto. Il secondo paradosso riguarda l’atteggiamento degli intellettuali: quando gli intellettuali, che sono molto istruiti e votano molto, celebrano il non voto, celebrano in effetti il non voto degli altri, delle “classi inferiori” appunto. Le élites ottocentesche sarebbero state d’accordo.

Ma anche i propugnatori dell’astensionismo di sinistra devono fare i conti con un loro paradosso. Anch’essi, per motivi del tutto opposti, finiscono con il favorire le tendenze in atto. Per opporsi alla deriva della politica di sinistra, che non ha saputo contrastare questi cambiamenti e che anzi li ha spesso agevolati o addirittura provocati, rischiano di approfondirne gli effetti negativi. Come minimo, contribuiscono a legittimare pubblicamente (ciascuno con il proprio pubblico, grande o piccolo che sia) un disimpegno politico-elettorale che già sta diventando endemico al sistema. E non facciamoci illusioni: il non voto, nei grandi numeri e sul lungo periodo, non implica mobilitazioni di tipo diverso bensì passività cronica; come mostra il caso degli Stati Uniti, diventa un fenomeno permanente, assai difficile o impossibile da riassorbire. E noi non abbiamo niente da guadagnarci.