Il PCI e il 1956

1. Gli eventi del 1956 hanno le loro origini negli anni 1953-55, ossia nel periodo successivo alla morte di Stalin. È allora che il gruppo dirigente sovietico, che aveva scelto la strada della direzione collegiale (Chrušcëv era il segretario più anziano, affiancato da altri quattro segretari tra cui Suslov, mentre primo ministro fu nominato Malenkov, coi quattro vicepresidenti Molotov, Berija, Kaganovic e Bulganin), oltre a imprimere una svolta sul piano interno , avviò una forte offensiva diplomatica volta a ottenere il riconoscimento degli assetti postbellici, una conferenza internazionale per la pace e un trattato di sicurezza collettiva. Malenkov affermò che una guerra nucleare avrebbe comportato ‘la fine della civiltà nel mondo’, ciò a cui fece seguito il discorso di Togliatti al CC del PCI sull’“accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana” .
Nell’intraprendere il nuovo corso l’URSS muoveva da una posizione di relativa forza. Il sistema coloniale stava tramontando; nel luglio 1953 era finita la guerra di Corea, mentre nel maggio 1954 i Viet Minh del comandante Giap avevano sconfitto i francesi a Dien Bien Phu, e a ciò erano seguiti gli accordi di pace e la divisione dei due Vietnam . Anche la ripresa di incontri diplomatici ai più alti livelli, con conferenze internazionali a Berlino, Ginevra e Mosca, attestava il mutato clima politico mondiale. Di questo dovevano tenere conto anche gli Stati Uniti, che alternavano impostazioni aggressive come quelle del roll back o della “rappresaglia massiccia” di J.F. Dulles, a prese di posizione più concilianti . Le stesse posizioni sovietiche non erano univoche: se Vyšinskij all’ONU propose l’interdizione della bomba H, successivamente – dopo la caduta di Malenkov – Molotov ne ribaltò le affermazioni sulla guerra atomica, sostenendo che essa avrebbe portato non alla fine della civiltà ma del capitalismo ‘putrescente’; ciò a cui seguì la replica di Togliatti . In ogni caso, il confronto tra i due blocchi e la stessa guerra fredda entravano in una fase maggiormente strutturata, i cui cardini furono fissati nel maggio 1955, con la firma del trattato di pace con l’Austria e il ritiro delle residue truppe sovietiche, il recupero della piena sovranità della Germania ovest e il suo ingresso nella NATO (cui seguirà il riarmo tedesco), e l’istituzione del Patto di Varsavia .
Avanzava intanto il “comunismo-decolonizzazione”, ossia l’intreccio fra movimenti di liberazione, radicali riforme sociali ed economiche nei paesi appena emancipatisi, esperimenti “socialisteggianti” e ampliamento del fronte antimperialista in alleanza con l’URSS e la Cina . In Egitto Nasser promosse una profonda riforma agraria; l’India di Nehru proclamò la sua “scelta verso il socialismo”; ma soprattutto questi e altri ventisette paesi (tra cui Cina, Giappone, Indonesia, Vietnam del Nord e Iraq), riuniti a Bandung per la Conferenza afro-asiatica, presero apertamente posizione contro il colonialismo ‘in tutte le sue forme’ e a favore di “coesistenza pacifica” e cooperazione internazionale, ponendo le basi di quel movimento dei “non allineati” di cui farà parte anche la Jugoslavia di Tito . Come osserva Hobsbawm, molti di questi paesi “erano o dicevano di essere socialisti secondo una via nazionale (diversa cioè dal modello sovietico)” .
Il gruppo dirigente sovietico colse l’importanza di questo processo, come dimostrano i viaggi di Chrušcëv e Bulganin, prima in Cina, dove conclusero importanti accordi di carattere economico; poi in Jugoslavia, dove nel maggio 1955 fecero autocritica rispetto alla rottura del 1948, ottenendo così la ripresa delle relazioni diplomatiche; e infine in India, Birmania e Afghanistan, dove avviarono una nuova politica di aiuti economici ai “paesi in via di sviluppo” . Tuttavia, l’emergere di questo nuovo soggetto era destinato ad aprire contraddizioni e creare problemi non solo alle potenze imperialistiche, ma alla stessa Unione Sovietica.

La presenza della Cina, infatti, aveva messo in movimento […] un diverso modello di comunismo, […] pronto a ravvisare nei contadini e nei paesi poveri o dipendenti il referente sociale rivoluzionario privilegiato […], a teorizzare di conseguenza l’assedio delle città del mondo da parte delle campagne del mondo e a polemizzare contro la stessa Unione Sovietica […] ritenuta complice dell’imperialismo nella spartizione del pianeta proprio in ragione della teoria e della pratica della coesistenza pacifica […] .

La linea della coesistenza pacifica è sancita dal XX Congresso del PCUS, nel febbraio 1956 . Nel suo rapporto Chrušcëv, ribaltando la tesi dell’inevitabilità della guerra durante la fase storica dell’imperialismo (tesi leniniana fatta propria da Stalin ), afferma la “possibilità di evitare le guerre nell’epoca contemporanea”, la necessità di fondare la lotta al sistema capitalistico sulla “competizione tra i due sistemi” (perlopiù in chiave economicistica), e infine l’esistenza di diverse forme di transizione al socialismo, non esclusa quella di tipo prevalentemente “parlamentare” . Si tratta di novità di non poco conto, che Togliatti riprende nel suo saluto al congresso . Ma l’elemento esplosivo del congresso è nel Rapporto segreto, letto da Chrušcëv ad una sessione riservata, in cui questi – pur ribadendo la giustezza della lotta contro le opposizioni interne al Partito bolscevico e la linea del “socialismo in un solo paese” – denuncia quello che definisce il “culto della personalità” di Stalin e le “sue dannose conseguenze”, oltre alle sistematiche violazioni della “legalità rivoluzionaria” compiute sotto la sua direzione .
Della delegazione italiana (composta, oltre che da Togliatti, da Scoccimarro, Cacciapuoti, Rita Montagnana, Bufalini, Bugliani, più Vidali per il PC di Trieste) , sono a conoscenza del Rapporto segreto solo il Segretario, che ne riceve una copia, e Scoccimarro, cui questi lo mostra. Rientrato in Italia, Togliatti, sentendosi vincolato dalla riservatezza raccomandata da Chrušcëv, ne informerà solo la Segreteria . Nel suo rapporto al Comitato Centrale sul XX Congresso, evidenzia piuttosto l’ampliarsi del movimento comunista mondiale, e dunque la questione delle “diverse vie al socialismo” (da cui segue che la funzione di guida dell’URSS è “per lo meno, in via di modificazione”) e quella della “utilizzazione del Parlamento”, enfatizzando il percorso compiuto in questo senso dal PCI. Quanto a Stalin, Togliatti ne sottolinea il ruolo e i meriti, criticandone invece la tesi del “continuo inasprimento della lotta di classe” durante il processo di transizione, e ritenendola non un “pretesto” per la repressione (come invece ha detto Chrušcëv) ma piuttosto una tesi “esagerata, falsa”, che ha favorito le violazioni della legalità socialista, assieme al “mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito” e al “culto della persona” che ha favorito “la burocratizzazione degli apparati” .
Tre giorni dopo, la Direzione discute dell’imminente scioglimento del Cominform, anch’esso annunciato a Mosca, cui andrebbero sostituiti “contatti tra gruppi di partiti”. Scoccimarro propone che si creino “gruppi regionali di partiti”, mentre Pajetta insiste sulla necessità di un’azione coordinata e unitaria col PCF . Allorché lo scioglimento è ufficializzato, Togliatti ne dà un giudizio positivo:

Ne dovrebbe derivare, soprattutto, maggiore scioltezza e capacità di adeguare il nostro movimento alle condizioni e necessità dello sviluppo democratico e socialista in ogni paese. Ne dovrebbe derivare anche una maggiore autonomia nella valutazione critica dei progressi e anche degli errori fatti […]. Sarebbe un grande vantaggio […] se risultasse chiaro che non è vero che nel nostro movimento esista una situazione tale per cui, quando gli uni sbagliano, necessariamente tutti gli altri devono avere sbagliato o sbagliare nello stesso modo, oppure che quando gli uni progrediscono questo voglia dire senz’altro che per progredire tutti abbiano da fare le stesse cose […] .

Ormai però la notizia dell’esistenza di un “Rapporto segreto” di Chrušcëv è emersa. Il 18 marzo, anche “l’Unità”, tra i primi giornali comunisti a farlo, la riporta. Tutto il partito è investito dal dibattito su Stalin . Si svolgono movimentate riunioni dei Gruppi parlamentari: tra i deputati, emergono le critiche di Amendola, Pajetta e Gullo, e lo stesso Togliatti afferma che con le rivelazioni di Chrušcëv anche i comunisti italiani sono ‘liberati d’un peso’; tra i senatori, Terracini contesta la democraticità del sistema sovietico. In Direzione, Ingrao si chiede se gli errori denunciati da Chrušcëv non indichino che “c’è nel sistema qualcosa da correggere”, mentre per Longo si conferma “la validità del sistema anche perché si adegua alla particolarità concreta [delle vie nazionali] e alle cose nuove” . Al Consiglio nazionale del PCI in vista delle elezioni amministrative, ove Togliatti nella relazione dedica pochi minuti agli scottanti temi internazionali, Amendola e Pajetta si fanno portavoce del disagio presente nel partito, cosicché il Segretario torna, nella replica, sulla questione di Stalin, insistendo sulla fase storica drammatica in cui si era sviluppata la sua azione, sottolineandone gli aspetti positivi e ottenendo l’applauso “scrosciante, polemico” della platea . Afferma Togliatti:

L’uomo di cui al XX Congresso del PCUS, il compagno Stalin, sono stati indicati e criticati errori e difetti da lui commessi particolarmente nell’ultimo periodo della sua esistenza, è un uomo che si è conquistato un posto nella storia alla testa di un’opera immane, della Rivoluzione d’Ottobre, della costruzione della società socialista, dell’affermazione e della difesa fino all’ultimo di questa società.
Questo posto quest’uomo lo tiene e lo terrà per sempre nella storia e nella coscienza degli uomini che sanno comprendere le cose. Le critiche cancellano gli errori della esaltazione personale e i difetti che da questi successi erano derivati nella vita di partito e nella vita politica dell’Unione Sovietica. Le indagini storiche non terminano oggi e non termineranno tanto presto credo, perché si tratta di una personalità che ha occupato un po’ di spazio sulla scena della storia.

D’altra parte – aggiunge – non è un caso se il processo di revisione critica inizi adesso, quando cioè paiono aprirsi nuove prospettive grazie al crollo del sistema coloniale, alla distensione e allo sviluppo stesso del socialismo. “Ecco perché proprio in questo momento la società socialista si può liberare e si libera del peso di determinati errori, i quali sono stati un doloroso tributo pagato alle condizioni stesse in cui si sviluppò la lotta e si dovette combattere, spesso anche a occhi chiusi, per non essere sopraffatti, e non si poteva arrischiare nessuno scuotimento interno delle proprie file” .
L’atteggiamento di Togliatti rispetto al XX Congresso è comunque cauto. Secondo F. Benvenuti, la sua “riluttanza […] ad affrontare il nodo Stalin nasceva da una seria riserva sull’operato di Chrušcëv” e sul modo in cui questi aveva posto temi così delicati e complessi. Pajetta conferma: “Ci fu il lui come una sorta di fastidio, […] anche intellettuale, di fronte a quella che a lui sembrò la rozzezza kruscioviana”. Togliatti fu “uno di coloro ai quali il documento piacque meno […] proprio perché puntava sull’emozione e rinviava […] la ricerca” . Scrive dal canto suo Ingrao:

[…] egli valutò subito le implicazioni grandi della ‘rottura’ operata al XX, vide le manovre che su di essa veniva innestando l’avversario di classe, ed essendo insoddisfatto delle forme e dei metodi con cui la svolta era stata gestita dal gruppo dirigente sovietico, sperò o cercò che da parte del movimento comunista internazionale si giungesse a guidare il processo di rinnovamento in modo più positivo, misurato nella forma […], ma avanzato nella sostanza.

È probabile dunque che Togliatti attendesse un segnale in questo senso dagli stessi sovietici . Di certo, scioltosi il Cominform, si registra “un nuovo dinamismo nell’iniziativa internazionale del PCI” (Agosti), il quale avvia una serie di contatti bilaterali in nome di quel policentrismo che Togliatti teorizzerà di lì a poco. A maggio si tengono sia un incontro riservato col PCF in cui si discute una piattaforma comune “per costituire un coordinamento tra partiti comunisti dell’Europa occidentale”, su cui però i francesi rimangono “tiepidi”; sia l’incontro Togliatti-Tito che segna la riconciliazione coi comunisti jugoslavi, creando ulteriori perplessità del PCF .
Il 4 giugno, il “New York Times”, entrato in possesso del Rapporto segreto tramite il Dipartimento di Stato USA, lo pubblica integralmente; in Italia lo emulano altri giornali. Il PCI critica “il modo insolito” con cui il documento è stato reso noto; ma la necessità di una presa di posizione si fa stringente . Verso la fine del mese, esce l’intervista di Togliatti a “Nuovi Argomenti”, con le sue risposte a Nove domande sullo stalinismo. Togliatti sottolinea

il progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive di origine e natura democratica e, come conseguenza di questo, l’accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell’organismo sociale.
Si deve però subito aggiungere che questa sovrapposizione è stata parziale ed ha probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del partito. Di qui è partita una tendenza alla restrizione della vita democratica, […] ma di qui non si può assolutamente dire che sia derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica da cui deriva il suo carattere democratico e socialista […].

La durezza della lotta contro le opposizioni interne è fino a una certa fase giustificata, ma “il grave errore commesso da Stalin fu di aver illecitamente esteso questo sistema […] alle situazioni successive, quando non era più necessario […]”. Lo spiegare col sabotaggio o col tradimento (che pure esistevano) ogni lacuna o ritardo del sistema, inoltre, non solo creò una situazione di “inaudite violazioni della legalità socialista”, ma impedì anche di affrontare problemi che erano oggettivi, strutturali. Tuttavia, “la linea seguita nella costruzione socialista continuò ad essere giusta, anche se gli errori […] non possono non avere seriamente limitato i successi della sua applicazione”. Togliatti inoltre, pur giudicando “assolutamente necessario che la denuncia degli errori di Stalin venisse fatta”, esprime la sua insoddisfazione per l’analisi kruscioviana:

Sino a che ci si limita […] a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell’ambito del ‘culto della personalità’. Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali […] suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell’altro siamo fuori dal criterio di giudizio che è proprio del marxismo.

Occorre, dunque, proseguire la ricerca e approfondire l’analisi, e tale compito spetta in primo luogo ai sovietici. Quanto al movimento comunista, “il complesso del sistema diventa policentrico e […] non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse” .
Secchia, dal canto suo, commenta: “[…] personalmente, più che di una maggiore autonomia di giudizio, sento la necessità […] che vi sia di più un giudizio collettivo e cioè che determinate decisioni […] siano prese per lo meno dopo un dibattito tra i dirigenti del movimento comunista internazionale” . Sulla questione delle diverse vie al socialismo e del “sistema policentrico” Togliatti torna nel rapporto al CC del 24-25 giugno, che indice l’VIII Congresso del partito . Intanto l’intervista – su cui la Direzione ha trovato un punto di sintesi unitaria – ha una forte eco nel mondo. Da parte sovietica, preceduta da una lettera di Chrušcëv a Togliatti, giunge una risoluzione del PCUS in cui, pur apprezzandone lo spessore e condividendone l’analisi, si critica il testo per l’uso del termine “degenerazione” .
Si decide quindi di inviare una delegazione in URSS per avere chiarimenti su tutta la vicenda. In particolare, si vuol sapere dai sovietici se sono previste “nuove rivelazioni” (dicendo loro che sarebbero superflue), quali siano le misure prese per ovviare ai guasti denunciati, e come pensino occorra gestire i rapporti tra i partiti comunisti (“policentrismo” o rapporti bilaterali?). La delegazione, composta da Pajetta, Negarville e Pellegrini, ha vari incontri con Ponomarëv, Pospelov e lo stesso Chrušcëv. In ogni occasione, i dirigenti sovietici tornano sul termine “degenerazione”, che giudicano ‘una formulazione trockista, […] che significa ritorno al capitalismo’, cosicché la delegazione italiana deve precisarne il senso. Solo nell’incontro conclusivo con Chrušcëv la questione viene accantonata. Riferendo alla Direzione, gli inviati del PCI sottolineano “il mutamento di tono”, dovuto al diradarsi del timore che l’intervista di Togliatti “diventasse un’arma di lotta” nel movimento comunista internazionale. Quanto a quest’ultimo, i sovietici intendono regolarne i rapporti interni “sul piano dei contatti bilaterali” . E in effetti, sottolinea Amendola, “il fatto nuovo è questo tipo di rapporto che si è creato coi compagni sovietici, da partito a partito”. Il gruppo dirigente del PCI, quindi, come già ha fatto Togliatti pubblicamente, conferma la propria posizione. È una “affermazione di autonomia [che] non va sottovalutata e differenzia profondamente il PCI dal PCF […]”. “La possibilità del dissenso […] viene difesa pregiudizialmente come nuova base di metodo nelle relazioni tra PCI e PCUS” .

2. Intanto la situazione internazionale va subendo altri scossoni. Alla fine di giugno c’è la rivolta degli operai di Poznan, che vede una differenziazione pubblica nel gruppo dirigente comunista, con l’articolo di Di Vittorio, che parla di “malcontento diffuso” tra gli operai polacchi, e quello di Togliatti (La presenza del nemico), che insiste sugli elementi di provocazione promossi dagli Stati Uniti . Il mese seguente Nasser annuncia la nazionalizzazione del canale di Suez, ciò a cui seguono le manovre di Francia, Gran Bretagna e Israele .
Il PCI intanto continua a tessere la sua rete di contatti internazionali. A luglio c’è un nuovo incontro riservato col PCF, nel quale però tramontano le ipotesi di azione comune emerse a maggio, cosicché l’unico accordo siglato riguarda uno scambio di osservatori che durerà appena un paio d’anni . A settembre si tiene l’VIII Congresso del Partito comunista cinese: negli incontri con la delegazione italiana, Mao dà un giudizio positivo sulla “denuncia degli errori di Stalin” fatta da Chrušcëv, e anzi sono i comunisti italiani a dover spiegare la loro posizione sul policentrismo, vista “come di una certa opposizione al PCUS”; per i cinesi, “c’è un solo centro: l’Unione Sovietica”, anche se “ognuno è responsabile a casa sua” . Il mese seguente, infine, c’è un altro incontro pubblico tra comunisti italiani e jugoslavi, da cui risulta una sostanziale sintonia e col quale si ristabiliscono relazioni normali tra i due partiti . Quanto alla politica italiana, in agosto l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat pone le basi per il riavvicinamento PSI-PSDI, cui seguirà in ottobre la fine del patto d’unità d’azione tra socialisti e PCI, sostituito da un accordo di mera consultazione .
Intanto in Polonia Gomulka, che era stato rimosso dalla carica di Segretario del Partito nel 1949 e imprigionato nel 1951-54, è designato dall’Ufficio politico del POUP come nuovo Segretario; seguono giorni di tensione e l’improvvisa visita di Chrušcëv, che infine accetta la nuova situazione. Nel discorso di insediamento, Gomulka rivendica la diversità delle vie al socialismo, attacca il “sistema” del culto della personalità, e fa autocritica per Poznan, promettendo un miglioramento del livello di vita e la diffusione dei Consigli operai . In un telegramma del 23 ottobre al vertice del PCUS, Togliatti afferma che in Polonia il partito avrebbe potuto ‘perdere il controllo della situazione’, col rischio di dovere poi ‘cercare di dominarla con la forza, il che poteva portare a una catastrofe’, e critica le divisioni manifestatesi all’interno del gruppo dirigente sovietico e tra questo e quello polacco . In sostanza, la sua impressione è quella di una situazione difficile conclusasi bene, ma anche di un pericoloso campanello d’allarme.
Negli stessi giorni, in Ungheria, si tengono manifestazioni per commemorare Rajk, condannato a morte nello stesso ’49, e chiedere la revisione del processo e il ritorno al potere di Nagy, il comunista riformatore alla guida del governo nel 1953-55, poi espulso dal Partito e appena riammessovi. Il 22 ottobre un’assemblea del Politecnico di Budapest e del Circolo Petöfi vara una piattaforma di 16 punti, che chiede la fine della presenza di truppe sovietiche nel Paese, un processo a Rákosi e al capo della polizia per la sicurezza dello Stato (AVH) Farkas, il ripristino della vecchia bandiera nazionale ed elezioni pluripartitiche . Il 23 si svolge un corteo pieno di bandiere con lo stemma della repubblica tagliato (che diverrà l’emblema della rivolta), il quale chiede l’“indipendenza dell’Ungheria” e ‘Nagy primo ministro’, contestando il Partito governo e l’Unione Sovietica. Nagy pronuncia anche qualche parola dal Palazzo del Parlamento, anche se l’appellativo di ‘compagni’ rivolto ai manifestanti e il tono interlocutorio non sono molto apprezzati. Intanto una parte dei manifestanti abbatte la statua di Stalin, e altri assediano e poi assaltano le sedi della radio (poi occupata), del giornale del POSU Partito (qui la stella rossa in cima all’edificio viene smantellata) e del Partito stesso, ciò a cui seguono le prime vittime da entrambe le parti . La rivolta è seguita dalla richiesta di intervento di truppe sovietiche, che si trovano dinanzi a una vera e propria “guerriglia di strada”, ma anche dalla nomina a capo del governo di Nagy. Quest’ultimo chiede ai rivoltosi di deporre le armi, promettendo l’esenzione dai processi e ‘la sistematica democratizzazione del nostro paese’ . Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora direttore dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai” in varie fabbriche, “la presenza, in mezzo alle masse che lottano in nome del XX Congresso, […] di gruppi di provocatori, veri e propri commandos cui nel modo più idiota la vecchia classe agraria e il clero legato al card. Mindszenty danno il loro aperto appoggio” .
Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao, che esorta a porsi Da una parte della barricata, scegliendo “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato, in cui ribadisce che “il fatto essenziale è che si doveva respingere e che è stato respinto un attacco controrivoluzionario” . Il 25 Nagy annuncia alla radio l’inizio di negoziati sulle relazioni con l’URSS e il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento – aggiunge – ‘è stato reso necessario dagli interessi vitali del nostro ordine socialista’. Intanto Gerö si è dimesso anche da Segretario del Partito ed è stato sostituito da Kádar, il quale conferma l’avvio del negoziato con l’URSS sulle questioni più scottanti. Lo stesso CC del Partito approva l’istituzione dei Consigli operai e si impegna a costruire ‘un’Ungheria sovrana, indipendente, democratica e socialista’. Delegazioni operaie chiedono anch’esse il processo a Farkas, la modifica dei trattati commerciali con l’Unione Sovietica, l’aumento di salari e pensioni ecc. Altre forze, invece, esigono l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. La rivolta comunque non si ferma: i manifestanti premono davanti al Parlamento e la polizia spara, facendo decine di morti; si susseguono proteste pacifiche e azioni armate dei rivoltosi e dure reazioni di esercito e polizia. Lo stesso Nagy afferma che al ‘movimento di manifestanti pacifici […] si sono aggiunti putschisti controrivoluzionari’. Il 27 egli forma un governo comprendente anche non comunisti, che il giorno dopo ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento dell’AVH e il ripristino della vecchia bandiera nazionale. Si tratta, inoltre, per inglobare gli insorti nell’esercito regolare, e si annunciano riforme nell’agricoltura. Il 29 inizia il ritiro delle truppe sovietiche da Budapest, mentre dirigenti compromessi, come Gerö o Hegedüs, vengono fatti espatriare in URSS. Il 30, infine, è abolito il monopartitismo, si costituisce un nuovo governo con rappresentanti del Partito socialdemocratico, e si ribadisce l’intenzione di chiedere all’URSS ‘di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria’; su quest’ultimo punto un’affermazione di disponibilità proviene da una risoluzione del PCUS sul rispetto della sovranità ungherese e sulla necessità di rivedere il tipo di relazioni coi vari paesi del blocco sovietico. I rivoltosi parrebbero aver vinto; in sostanza, solo la richiesta di uscita del Paese dal Patto di Varsavia non è accolta, ma – come ha scritto G. Dalos – “questa era una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro”; in ogni caso, i risultati raggiunti “non ebbero nessun effetto” .
Nelle ore successive, infatti, mentre l’ex dirigente del Partito dei piccoli proprietari Dudàs, che non riconosce il governo Nagy, guida un gruppo armato all’occupazione del ministero della Difesa, si svolge una spietata “caccia al comunista”. La sede del Partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: dopo varie ore alcuni funzionari escono con le braccia alzate e una bandiera bianca, ma vengono linciati o fucilati sul posto, e i loro cadaveri appesi agli alberi; tra i morti c’è anche il segretario cittadino del Partito, un moderato vicino a Nagy. Si susseguono fatti che – scrive ancora Dalos – ricordano “la furia degli ufficiali bianchi dopo il rovesciamento della Repubblica dei Consigli, nell’agosto del 1919”. È a questo punto, secondo V. Sebestyen, che i sovietici optano per il secondo intervento . Anche in Italia, intanto, si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità” . Peraltro la situazione internazionale si è ulteriormente aggravata: il 29 Israele ha attaccato l’Egitto, secondo un piano orchestrato con Francia e Gran Bretagna, che il giorno dopo presentano un ultimatum per la fine delle ostilità e iniziano a bombardare gli aeroporti egiziani .
Le ripercussioni dei fatti ungheresi nel PCI sono pesanti. Il 29 viene redatta una lettera di dissenso di 101 intellettuali comunisti (fra cui Asor Rosa, Tronti, Muscetta, Colletti), che chiedono ‘un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito’ . “Poli di contestazione” emergono – soprattutto tra gli intellettuali – a Roma (la sezione “Italia”, la redazione di “Paese Sera”, dirigenti come Natoli e Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, ma anche Feltrinelli e gli studiosi che fanno capo al suo Istituto) ; Torino (dove la cellula “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi chiede che “sia sconfessato l’operato della Direzione”, e si dichiari la “piena solidarietà” coi rivoltosi e l’“incitamento” a dirigenti e “masse popolari” sovietici a battersi per un radicale rinnovamento); e in altre federazioni . L’intero partito è scosso da una discussione aspra e serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato della Segreteria che indica nei fatti ungheresi ‘la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari’; Di Vittorio in una dichiarazione conferma tale posizione, diventando, assieme a Giolitti, il punto di riferimento dei dissenzienti .
Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza che investivano la linea seguita nella marcia verso il socialismo”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” . Lo stesso giorno, il Segretario detta un secondo telegramma al PCUS, in cui descrive la situazione interna al PCI e il coagularsi del dissenso attorno a Di Vittorio, giudica il governo ungherese in marcia irreversibile ‘verso una direzione reazionaria’, ed esprime ‘preoccupazioni’ sul mantenimento della collegialità nel gruppo dirigente sovietico, la cui eventuale rottura avrebbe ‘conseguenze […] molto gravi per l’intero movimento’ . Il CC del PCUS gli risponde il giorno dopo, esprimendo un’identità di vedute sulla situazione ungherese e definendo ‘infondate’ le preoccupazioni di Togliatti .
In Direzione, il Segretario del PCI individua due posizioni sbagliate: “Tutto questo avviene perché c’è stato il XX Congresso. Posizione falsa perché getta a mare tutto ciò che di nuovo è stato e viene fatto”, e quella secondo cui “la sommossa è stata democratica e socialista e dovevamo sostenerla fin dall’inizio”. Per Togliatti, la critica anche aspra va benissimo, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. In ogni caso – aggiunge – “si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo cui “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni. Bisogna modificare radicalmente i metodi di direzione nei paesi di democrazia popolare e cambiare anche la politica economica”, democratizzando la pianificazione e dando più spazio alla produzione di beni di consumo. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”; Ingrao rileva la “mancanza di un moto operaio a difesa del potere”; e Pajetta aggiunge: “Per andare avanti bisogna cambiare il modo di agire. Il conservatorismo è oggi il nemico principale. […] Chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta armata è condannata, e Di Vittorio aspramente criticato per la sua differenziazione pubblica. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa contro il governo. […] In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” . Il comunicato della Direzione ribadirà che l’origine della crisi sta nella “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia alle tradizioni nazionali”, ciò da cui è derivato “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; ma conferma che “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie .
Il PCI, dunque, pur affermando l’inevitabilità dell’intervento militare dinanzi alla rivolta aperta, è decisamente critico nei confronti dei dirigenti ungheresi, per la loro incapacità di evitare che si giungesse a tale punto di crisi, di cui quindi sono ritenuti responsabili. Tale giudizio si ritrova anche nella relazione inviata da alcuni quadri del partito italiano che si trovavano a Budapest in quei giorni, la quale peraltro costituisce una testimonianza preziosa della gravità e durezza della rivolta .
Intanto il gruppo dirigente sovietico, che inizialmente aveva optato per una soluzione pacifica del conflitto, anche sotto la pesante influenza dei bombardamenti anglo-francesi sugli aeroporti egiziani, il 31 decide il secondo intervento . Nulla, però, è ancora compiuto. Nella mattinata del 31, il governo ha deciso di ‘rivolgersi all’Unione Sovietica a proposito della questione relativa al Patto di Varsavia’; ricevute notizie su movimenti di truppe sovietiche alla frontiera, il 1° novembre, Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto e la neutralità del Paese, informandone subito l’ONU. Tuttavia i negoziati proseguono ancora. Kádar intanto ha preso le distanze da Nagy e avviato la rifondazione del Partito, dichiarando la necessità di contrastare ‘la minaccia di controrivoluzione’. Il 2 novembre, assieme a Münnich, incontra a Mosca i vertici sovietici, criticandone l’operato, chiedendo il ritiro delle truppe, ma convenendo sulla necessità di fermare il precipitare della situazione. In Ungheria, il card. Mindszenty, reintegrato nel ruolo di primate della Chiesa cattolica nazionale, in un discorso al Paese chiede un’economia mista e la restituzione delle immense proprietà della Chiesa, e definisce il governo Nagy ‘erede del caduto regime’, negandogli così ogni legittimazione. Il giorno dopo, nel governo entrano anche il Partito dei piccoli proprietari e il Partito Petöfi, ma – mentre Nagy in una conferenza stampa illustra la nuova posizione internazionale dell’Ungheria – la delegazione che tratta il ritiro delle truppe sovietiche è arrestata dal KGB. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo. Nagy trova rifugio nell’ambasciata jugoslava, mentre Kádar forma un nuovo governo, di cui fanno parte vari ministri dell’Esecutivo precedente . Nelle stesse ore, truppe anglo-francesi penetrano in Egitto, ma presto le pressioni internazionali (non ultime quelle dell’URSS) impongono il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe: è “la Waterloo del colonialismo europeo”. Poco dopo, il 12 novembre, anche i sovietici si ritirano dall’Ungheria. Nagy e i suoi sono arrestati il 22 . Per Togliatti, l’alternativa all’intervento sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. Esso, quindi, è stato “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato, di procedere sulla linea del XX Congresso e “renderne esplicite tutte le conseguenze” .
Negli stessi giorni, si tiene a Parigi una riunione tra Velio Spano e una delegazione del PCF per verificare la possibilità di un pronunciamento comune sulla situazione internazionale, la rivolta ungherese e la necessità di salvaguardare l’unità delle “forze democratiche e popolari” nella loro lotta per la distensione . Nella sua introduzione, Spano contesta a Thorez che non basta dire che si è ‘al fianco dei lavoratori ungheresi e dell’Armata rossa sovietica’, “ma che bisogna spiegare che cosa ciò voglia dire quando, di fatto, non sembra che i lavoratori ungheresi siano dalla stessa parte dell’esercito sovietico, almeno nella loro grande maggioranza”. La divergenza di analisi, dunque, appare subito netta. Vengono quindi preparate due bozze di un comunicato conclusivo. Nella bozza in italiano, si imputano gli eventi ungheresi a due fattori: “i gravi errori compiuti nella direzione economica e politica del Paese”, e “la scissione e disgregazione delle file del Partito dei lavoratori, che avrebbe dovuto […], rimanendo unito, procedere[…] alle necessarie profonde correzioni”. In mancanza di tutto ciò, “è stato possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale […] aizzato da nemici del potere popolare e del socialismo”, e in cui si sono inseriti “in modo sempre più esteso e […] aperto gruppi e forze reazionarie e fasciste”, provocando “una ondata di terrore bianco, il massacro in massa di buoni militanti […], l’avanzata minacciosa del vecchio fascismo”. In questa situazione,

le forze sovietiche hanno costituito la sola possibile barriera a difesa di quei valori e di quelle posizioni che dovevano essere ad ogni costo difese […].
[…] il sopravvento in Ungheria di forze reazionarie […] avrebbe acceso nell’Europa orientale un focolaio di provocazioni di guerra, rendendo quasi certo lo scoppio di un conflitto armato. Il ricorso alla forza sovietica è stato, in queste condizioni, una dura necessità, di cui devono rendersi conto tutto il movimento operaio e tutti i buoni democratici.

La bozza si conclude con un richiamo ai “principi di piena e reciproca indipendenza e sovranità” che devono vigere nei rapporti tra paesi socialisti, e alla “lotta perché sia posta fine alla politica dei contrapposti blocchi militari e tutte le truppe e basi militari straniere siano ritirate da tutti i Paesi” .
Sulla base di questo documento Togliatti fa giungere un emendamento in cui si ribadisce che “una correzione degli errori fatta al momento opportuno avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito di dominare la situazione senza fare il primo appello alle forze sovietiche, provocando così una esasperazione del sentimento nazionale” . Si tratta, dunque, di un’aggiunta non marginale, che completa e modifica l’analisi proposta.
E infatti proprio sull’emendamento Togliatti si appuntano le critiche dei dirigenti del PCF, i quali vedono la presenza di ‘un dissenso di fondo’ ed escludono la possibilità di un comunicato comune. Fajon accusa il PCI di avere la stessa posizione di Tito, mentre Thorez contesta la definizione della rivolta come “movimento popolare”. Anche il giudizio sull’intervento sovietico come “dura necessità” è rigettato, mentre i francesi parlano di “dovere di classe” e sottolineano – cogliendo un elemento di verità che era noto a Stalin e sarà poi sviluppato da Mao – che “la lotta di classe non è ancora spenta nelle democrazia popolari” (Duclos). La divergenza riguarda anche il policentrismo, laddove per i francesi “c’è un solo centro, l’Unione sovietica” (Guyot), e la linea generale da tenersi rispetto alle difficoltà del movimento comunista. “Bisogna insistere sulle responsabilità del nemico di classe e non sui nostri errori, altrimenti tutto si sfascia”, dice la Vermeersch, e Thorez aggiunge: “Oggi bisogna far fronte all’attacco dall’esterno, spezzando ogni tentativo di disgregazione dall’interno. […] Non siamo dunque d’accordo: né sull’insurrezione popolare; né su qualsiasi riserva […] alla solidarietà verso l’esercito sovietico; né su una qualsiasi formula che voglia dire che i sovietici debbono andare via dall’Ungheria” .
Dai colloqui di Parigi, escono dunque confermate le distanze tra PCI e PCF, non solo sull’Ungheria ma in generale sulle prospettive post – XX Congresso, di cui gli italiani enfatizzano le potenzialità, mentre i francesi sottolineano soprattutto i rischi. In Direzione, Spano dirà: “Il nostro equilibrio deve farci sentire anche su scala internazionale, aiutando i compagni sovietici a sentire certi aspetti della realtà che ignorano” .
Anche questo episodio conferma la notevole complessità della situazione; e in questo quadro, la posizione dei comunisti italiani – Togliatti in primis – appare lontana da un allineamento acritico e dalla mera presa d’atto della situazione, che pure ne costituisce il punto di partenza. Anche nel giudizio sulla necessità dell’intervento sovietico, infatti, torna la sottolineatura degli errori del gruppo dirigente ungherese, una cui condotta più attenta e un cui legame più organico con le masse popolari avrebbe potuto evitare il precipitare della situazione fino a un punto in cui l’intervento si rendeva inevitabile. L’accento, quindi, è posto ancora una volta sul problema del rapporto partito-masse, che rimanda alle questioni più generali dell’egemonia e del rapporto socialismo-democrazia che caratterizzano gran parte dell’elaborazione di Togliatti, e che lo indurranno a rilanciare, di lì a un mese, dalla tribuna dell’VIII Congresso del PCI, la “via italiana al socialismo” .
Il PCI, dunque, pur perdendo nell’anno successivo circa duecentomila iscritti, ha superato gli scossoni attraverso una linea che Ingrao sintetizza così:

1) Respingere le tendenze ad una difesa dogmatica del passato e orientare i militanti e le masse ad una ricerca e ad una iniziativa sulle questioni venute alla luce […]; 2) la convinzione che questo avanzamento del ‘nuovo’ doveva realizzarsi nel fuoco di uno scontro politico mondiale in cui i gruppi dominanti dell’Occidente capitalistico tendevano a rompere lo schieramento di sinistra ed antimperialista […]; di conseguenza, la convinzione che si dovesse mantenere la compattezza non solo del sistema socialista, ma anche delle file della sinistra […] .

Lo stesso Togliatti ha superato la messa in discussione della sua leadership, riuscendo a presentarsi come il punto di equilibrio più avanzato tra le esigenze del PCI sul piano nazionale e la sua appartenenza al movimento comunista internazionale . All’VIII Congresso del partito, il Segretario rilancia la necessità di “una politica europea e mondiale nuova, fondata sulla rinuncia all’organizzazione dei blocchi militari […]”. Il mondo stesso, infatti, “è diventato policentrico”, e i due campi sono sempre più articolati al loro interno. In questo quadro riafferma il “principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo”, che implica “un sistema di Stati socialisti […] in cui la sovranità dei paesi più piccoli non può essere limitata […] da interventi e pressioni degli Stati più forti”; ma al tempo stesso ribadisce che l’intervento in Ungheria è stato “una dura necessità”. Quanto ai rapporti nel movimento comunista, il segretario del PCI riconosce che il policentrismo “è appars[o] non compatibile con l’autonomia di ogni partito”, per cui vanno privilegiati “il sistema dei rapporti bilaterali” e “l’organizzazione di incontri […] di parecchi partiti”. “Il movimento comunista deve avere […] una sua unità”, ma una “unità che si crei nella diversità e originalità delle singole esperienze”. “Non vi è né Stato guida, né partito guida”. “La diversità delle vie di avanzata verso il socialismo sgorga dalla storia, dalla economia, dallo sviluppo del movimento operaio”, e il PCI deve seguire “una via italiana” . Il documento con cui si chiude il congresso riprende quasi alla lettera questi passaggi, ribadendo la “molteplicità” delle vie al socialismo (mentre è “errata e pericolosa la imitazione pedissequa […] delle misure adottate per la costruzione socialista nell’Unione Sovietica”), e approfondendo i tratti della “via italiana” .
Quest’ultima è oggetto dell’attacco del francese Garaudy, che critica il concetto di riforme di struttura e la possibilità di una via democratica al socialismo. Nella sua la replica, Togliatti rivendica la possibilità di una “via italiana”, sottolineando il nesso tra riforme strutturali e mutamento delle direzione politica del Paese, e tra lotte democratiche e lotta per il socialismo. Come osserva Agosti, non è escluso “che l’iniziativa francese debba essere inquadrata in una più ampia campagna ‘antirevisionista’ ispirata dai sovietici, e diretta principalmente contro i partiti jugoslavo e polacco, ma intesa anche a mettere sull’avviso il PCI circa i limiti invalicabili dell’autonomia di ogni ‘via nazionale’” . E tuttavia è proprio nel 1956 che nel partito italiano riprende la riflessione su una strategia di avanzata al socialismo “adeguata alle condizioni della società italiana e, più in generale, dell’Occidente europeo”; e in questo quadro prende le mosse un processo “di reale ricerca e di impegno per un nuovo internazionalismo” .
Ha scritto Paolo Spriano: “Riscoprivamo la ‘via italiana al socialismo’. Lanciata da Togliatti come prospettiva storica nel 1944, quella via era parsa sbarrata con la fine del 1947. […] Con il marzo del 1956 essa viene rilanciata ed è un rilancio foriero di conseguenze positive”. Da allora in avanti, “il PCI comincia ad acquisire una sua fisionomia originale, a farsi davvero alfiere delle ‘vie nazionali’, dell’autonomia dei vari partiti, del policentrismo”, anche a costo di polemiche col PCUS, il partito cinese e quello francese . Si avviano infine nuovi rapporti con varie forze antimperialiste, e si pongono le basi di quel ruolo centrale del PCI nel movimento comunista e sulla scena internazionale, che sarà portato avanti negli anni seguenti.