Giorgio Albertazzi ex “spalla” dei nazisti continua a dire: non mi pento

Notte e nebbia. Più notte che nebba. «Di che cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo», così parla di sè Giorgio Albertazzi nel libro che Aldo Cazzullo ha appena pubblicato (“I grandi vecchi”, Mondadori). A sua discolpa, al massmo, aggiunge: «Un uomo è ciò che ha fatto, ma anche ciò che pensa». Più in là, due pagine dopo, si autoassolve: «Io avevo 18 anni, tiravo di boxe, ero forte e veloce. Partigiani in giro non ce n’erano, e devo dire che non ne ho mai visti, se non nella primavera del ’45».

Invece i partigiani li ha visti e molto molto da vicino. Era lui, infatti – il sottotenente Giorgio Albertazzi, insieme al sottotenente Prezioso e al comandante tenente Giorgio Pucci, responsabile della terza compagnia, 63° battaglione M – a guidare l’“operazione Piave”, il grande rastrellamento antipartigiano del settembra 1944 sul Grappa. I documenti erano lì, infilati in una busta “Tagliamento”, insieme alle carte di un processo intentato dal tribunale di Milano a 13 legionari dopo la Liberazione e sono stati resi noti ieri da una anticipazione della rivista MicroMega al Corriere dell Sera. Giorgio Albertazzi c’era.

“I battaglioni del Duce siamo noi, l’elite guerriera della Rsi con la emme (M) rossa”, già. Fu appunto uno di questi battaglioni, il 63°, a collaborare, entusiasticamente, dal 20 al 27 settembre 1944, ad una vasta operazione di rastrellamento messa in atto dai nazisti, che causò gravi perdite alle formazioni partigiane. Il battaglione, appartenente alla LegioneTagliamento, era formato da varie compagnie e una di queste, la terza, aveva per ufficiale proprio il sottotenente Giorgio Albertazzi. Tra il “bottino” di guerra, tre soldati inglesi fucilati e cinque “banditi” uccisi (tra essi il leggendario capitano Giorgi, cioè il comandante della brigata partigiana Italia Libera, Ludovico Todesco).

Albertazzi c’era, ha visto e fatto. Un incontro coi partigiani molto ravvicinato, cruento. I documenti sono autentici, di prima mano. Inconfutabili. Vengono direttamente dal “Diario” militare dello stesso 63° battaglione, Manoscritto firmato di pugno dal medesimo tenente Giorgio Pucci e conservato negli archivi militari, oggi il “Diario” è reperibile su Internet. «8 lunedì, dopo mezz’ora di ostinata e violentissima sparatoria la resistenza viene domata e i banditi lasciano sul terreno 11 morti. 9 martedì. Dopo una ostinata lotta durata circa mezz’ora veniva ucciso un bandito e catturati 8. Venivano pure catturate due donne, una delle quali moglie di un bandito, ed un renitente alla leva. Gli 8 banditi catturati vengono passati per le armi. 17 mercoledì. Alle 4,30 la 3a compagnia attacca in località Mottalciata le cascina Mondova e Caprera nelle quali risultavano asseragliati elementi ribelli»…

Su internet il “Diario” si arresta all’agosto 1944. Il seguito, gli ultimi sette giorni del sanguinoso settembre ’44, è stato appunto rinvenuto nella busta “Tagliamento” con gli atti processuali di Milano
A ritrovarli, cercando altre piste, è stata una studiosa di Vicenza, Sonia Residori, laureata in lettere, ricercatrice dell’Istituto sulla storia della Resistenza (del cui direttivo è membro) della stessa città, autrice di saggi e libri sulla storia delle donne e sulla demografia storica, (nel 2004 è uscito il suo volume, “Il coraggio dell’altruismo”, edizioni CR di Verona, nell’ambito della collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza).

«Lavorando con Monica Lanfranco, ho indagato a lungo sul tema guerra e violenza sulle donne, guerra e stupri. Tra i campi di questa ricerca, appunto, l’operato della legione Tagliamento in azione sul Grappa nell’utima guerra, ivi inclusi le Brigate Nere e i battaglioni M, responsabili del terribile rastrellamento che dal 20 al 27 settembre 1944 ha avuto luogo in quella zona. Il nome di Albertazzi è uscito per caso, lui comandava il 2° plotone della 3° compagnia. Ma io volevo solo documentare quello, di quanto gli italiani si sono sporcate le mani qui sul Grappa». Solo a Bassano del Grappa, dice Sonia Residori, «i deportati sono stati 300-400 e i fucilati o impiccati 170».

La sua ricerca, corredata di allegati e documenti sulle gesta della 3° compagnia Battaglione M del sottotenente Albertazzi, uscirà sotto forma di libro in ottobre con il titolo “L’aristocrazia vicentina di tutte le guerre”, sempre per le edizioni CR di Verona.

Nel libro citato, Aldo Cazzullo scrive che «Albertazzi è molto attento alle sue parole. Anni fa, racconta, è accaduto che fossero strumentalizzate. “Militanti di Rifondazione mi contestarono chiamandomi fucilatore non pentito. Io non mi pento di quanto ho fatto. A maggior ragione non mi pento di quanto non ho fatto. E io non ho fucilato nessuno”».

Il Diario del 63° lo inquadra in una luce diversa. Lui c’era, quando si fucilava. E forse farebbe bene a pentirsi, cristianamente o meno. O almeno a “capire” quel tragico passaggio in cui incorse la sua gioventù (sul quale peraltro nessuno è disposto a fare sconti).

O forse gli fa ombra la memoria, gli fanno velo i fantasmi malamente rimossi del passato, non ricorda o forse mente? Nella intervista a Cazzullo con molta baldanza nega di avere mai visto i cosidetti partigiani, né da vicino né da lontano. Nella sua autobiografia – “Un perdente di successo” – pubblicata da Rizzoli nel 1988, invece afferma, testuale: «Forse non dovrei dirlo, non sta bene!, ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti» (brano riportato anche dal “Corriere della sera” di ieri).

Farebbe bene a pentirsi. Farebbe bene a raccontare la realtà nuda e cruda: sono stato un fucilatore (o tra coloro che comandavano i fucilatori). E lui che non ha avuto nemmeno la “bella morte” – quella che, si dice, in nome del duce andavano cercando quelli come lui – ha preferito darsela: «Dopo il 25 aprile, riparai ad Ancona…, dove misi in scena pièce sul Primo maggio e sui repubblicani spagnoli, sotto il falso nome di Glauco G. Albe, per sfuggire alle reti dell’epurazione».

“Battaglioni del duce siamo noi”, già. Giovanni Pesce è francamente indignato. «Si dovrebbe vergognare. E almeno sentire il dovere di tacere. Egregio signor Albertazzi, i partigiani non scappavano, combattevano, morivano con le armi in pugno e non cedevno nemmeno davanti ai plotoni di esecuzione comandati dai “ragazzi di Salò”. Quelli come lei».